formazione
La fatica, la bellezza,
l'orgoglio di essere insegnanti
Per attrarre i migliori talenti
non è sufficiente un'accurata selezione, una buona formazione iniziale
e in servizio. Prima ancora vanno coltivate le condizioni che rendono desiderabile investire nella professione docente. Non serve reclutare persone con aspettative basse, che cercano rifugio in una professione impiegatizia, che poco chiede e poco offre.
L’asticella non va abbassata, ma elevata.
Presidente della Scuola di Alta formazione EIS dell’Università LUMSA di Roma
Nel bel libro La cultura dell’educazione lo psicologo statunitense J. Bruner ricorda la sua insegnante di scienze. Un’insegnante notevole, che conosceva a fondo la sua disciplina e sapeva coinvolgere attivamente gli studenti. Scrive Bruner: «Quell’insegnante mi invitava ad ampliare il mondo dei miei stupori fino a comprendere il suo. Non si limitava ad informarmi, ma, al contrario, cercava di concordare con me, di negoziare, quale fosse il mondo della meraviglia e della possibilità. (…) Miss Orcutt era una persona rara; non era un mezzo di trasmissione di conoscenze, ma un evento umano».(1)
UNA PROFESSIONE COMPLESSA
Miss Orcutt conosceva a fondo la disciplina che insegnava e sapeva mediare il proprio sapere attraverso momenti laboratoriali nei quali coinvolgeva operativamente i suoi studenti. Ma non era solo una persona colta e professionalmente attrezzata. Era un’insegnante appassionata, e, proprio per questo, appassionante. Gli studenti che la incontravano non entravano in relazione con una funzionaria, con una tecnica, con una professionista, ma, dice Bruner, con un “evento umano”. Miss Orcutt ci aiuta a delineare tre dimensioni fondamentali del profilo di un insegnante di qualità: culturale, professionale, relazionale, che sintetizzano l’evoluzione storica del profilo del docente. In primo luogo, l’esigenza che il docente sia preparato nella disciplina che è chiamato ad insegnare. In questa prospettiva non si pone la questione della mediazione didattica. Psicologia, sociologia, didattica sono ignorate. La formazione del docente dovrà riguardare, pressoché esclusivamente, la sua formazione culturale e disciplinare. “Se so, so insegnare”, potrebbe essere lo slogan di questo modo di intendere l’insegnamento, che ha generato una didattica estremamente semplificata, quella della ‘lezione’ trasmissiva. Questo modello, ben radicato nella riforma Gentile, ha resistito contro ogni evidenza nella nostra cultura scolastica, soprattutto nella scuola secondaria.
In secondo luogo, la necessità che l’insegnante disponga di competenze professionali (psicopedagogiche, metodologiche e didattiche), che consentano di superare i limiti del modello gentiliano. Mentre in Italia Gentile si applica alla sua grande riforma, il movimento dell’Attivismo fiorisce e si sviluppa, negli Stati Uniti come in Europa, imponendo al sistema educativo un cambio di paradigma, una vera rivoluzione. Quando l’insegnante mette lo studente al centro del sistema educativo, devono cambiare le tradizionali modalità didattiche. L’aula si fa laboratorio, l’insegnante si fa maestro di bottega(2). L’Attivismo inaugura una via nuova, che poi sarà irrobustita dal pensiero di J. Piaget, J. Bruner, L.S. Vygotskij, H. Gardner, psicologi dell’educazione, e si delinea sempre più chiaramente l’idea della scuola come luogo dell’apprendimento e dello sviluppo delle competenze degli studenti. Tutto questo, insieme al fatto che stiamo vivendo una nuova rivoluzione culturale, quella digitale, pone nuove domande alla formazione degli insegnanti, e contribuisce a delineare un profilo molto più articolato e complesso.
Infine, le competenze relazionali. Ciò che rende indimenticabile Miss Orcutt non è la sua competenza culturale o professionale, ma la sua passione, la sua capacità di stupirsi e di genere stupore, il suo piacere di trovarsi con i suoi studenti, di dedicarsi a loro.
Se si condivide questa concezione dell’insegnante, si capisce che il profilo che lo descrive è quasi utopistico. Eppure non è ancora sufficiente.
UNA PROFESSIONE SOCIALE
Nell’arco di un tempo relativamente breve, il paesaggio educativo è profondamente mutato. Questo cambiamento non è dovuto solo agli enormi progressi tecnologici, alla rivoluzione digitale, alla mondializzazione, al cambio climatico e agli altri grandi eventi che stanno caratterizzando il nostro tempo, ma sono venuti meno i tradizionali valori di riferimento, si è sbriciolata l’alleanza educativa, gli insegnanti si sono visti investiti di compiti che un tempo erano della famiglia e di altri ambiti sociali ed educativi. In troppi casi la scuola è diventata un ultimo presidio sociale e valoriale. Marginale nell’attenzione della politica, la scuola è oggetto di una inesauribile serie di richieste. La si vorrebbe capace di educare all’uso consapevole dei media, specialmente degli strumenti digitali; dovrebbe occuparsi di educazione stradale, igienica, economica, ecologica, affettiva, sportiva… e via seguitando, nel lungo elenco di attese che sempre più si configurano come delega e non come, quanto meno, corresponsabilità. Gli insegnanti avvertono l’ingiustizia implicita in queste pretese, ma, al tempo stesso, sentono che, se non si assumessero questi oneri, in qualche modo tradirebbero il legame educativo che stanno costruendo con i loro alunni.
Pensiamo a quello che è accaduto recentemente, durante la pandemia, specialmente nei periodi di lockdown. Non soltanto gli insegnanti hanno dovuto reinventare la didattica, improvvisandosi generosamente competenti digitali, ma si sono assunti anche il compito di fornire sostegno umano, vicinanza, compagnia. In quell’occasione si sono operati molti sconfinamenti rispetto all’esercizio del proprio ruolo. Gli insegnanti sono entrati nelle case dei loro alunni, si sono inventati soluzioni creative per assicurare accompagnamento, hanno animato il tempo sospeso del distanziamento sociale per rendersi incontrabili. E, nel post pandemia, sono fioriti i progetti che hanno visto nuove alleanze, in particolare con il terzo settore, iniziative che hanno cercato di ricostruire il patto educativo tra scuola e comunità.
Tutto questo contribuisce a mettere in evidenza una quarta dimensione professionale, la dimensione sociale, nella quale l’educazione svolge una funzione trasformativa, e la scuola diventa soggetto autorevole di costruzione della comunità. In conclusione: quattro macro-dimensioni: culturale, professionale, relazionale e sociale delineano il profilo dell’insegnante di cui c’è bisogno.
PUNTARE ALL’ECCELLENZA
Per elevare la qualità della scuola, quello di cui c’è veramente bisogno è di eccellenti insegnanti. Questa dovrebbe essere la nostra priorità e la nostra ambizione. È un obiettivo alla nostra portata? Il nostro sistema formativo, a voler essere benevoli, è molto debole. Richiede interventi profondi in ognuno dei quattro livelli strategici, che devono essere intesi in modo tra loro integrato: selezione, formazione iniziale, reclutamento, aggiornamento e formazione continua. La situazione più allarmante riguarda la scuola secondaria, che rimane il vero nodo irrisolto. In Europa siamo il fanalino di coda rispetto al rapporto tra contenuti trattati all’università e contenuti e abilità necessarie ad insegnare. Dopo l’esperienza delle SISS, frettolosamente abbandonata, il sistema di formazione e reclutamento degli insegnanti della scuola secondaria è stato continuamente modificato, con interventi parziali e contraddittori (dal 2009 ad oggi si sono avvicendati quattro diversi modelli di formazione). Quello che emerge è “la più generale mancanza di un’idea condivisa del ruolo della scuola all’interno della società e, di conseguenza, della figura del docente, figura chiamata a svolgere tanti diversi ruoli, e con diverse parcellizzate competenze, ma senza una coerenza di fondo.”(3). E se analizzassimo la situazione riguardante la formazione in servizio, non ricaveremmo un quadro molto migliore.
Sono tante le leve sulle quali bisognerebbe agire con determinazione. I bassi stipendi, la scarsa possibilità di sviluppo di una carriera piuttosto piatta, la scarsa considerazione sociale, l’alto tasso di precarietà e di incertezza, la disattenzione della classe politica che non mette la scuola al centro delle proprie preoccupazioni, tutto questo agisce negativamente. Una qualche speranza si era manifestata nell’ambito del PNRR, con la legge n. 79 emanata dal governo Draghi. Tuttavia, soprattutto dopo il cambiamento di linea politica con il nuovo governo, assistiamo al progressivo annacquamento dell’impianto iniziale. È difficile essere ottimisti, tanto più che per attrarre i migliori talenti non è sufficiente una accurata selezione, una buona formazione iniziale e in servizio. Prima ancora vanno coltivate le condizioni che rendono desiderabile investire nella professione docente. Molte volte si cita la Finlandia per la qualità del suo sistema scolastico. Una non secondaria ragione è l’elevata reputazione sociale di cui godono i docenti, il che rende attraente la professione e desiderabile intraprendere il percorso formativo che porta all’insegnamento.
UNA RISORSA DA VALORIZZARE
Ma il quadro non è completamente buio. La nostra scuola è ricca di insegnanti (e di dirigenti) di grande qualità. Nonostante tutto, verrebbe da dire. Come mai? Se prendiamo in esame le migliori esperienze, scopriamo che l’ingrediente che le caratterizza, tutte, in ogni area del nostro Paese, è la motivazione sociale. Insegnanti (e dirigenti) eccellenti sono consapevoli dell’importanza educativa e civica del loro lavoro. Questa passione alimenta la loro competenza, che coltivano con caparbietà. Si tratta di un tesoro che non va disperso, una risorsa alla quale attingere e da moltiplicare.
Impegnarsi per riqualificare la figura dell’insegnante passa anche dal saper rendere visibile l’invisibile quotidianità di tanti e tante (sono soprattutto donne) che ogni mattina aprono la porta dell’aula e il cuore, senza discriminare, includendo, armonizzando le differenze, dando le parole a chi non sa esprimersi, educando al pensiero critico, alla convivenza nelle differenze, alla democrazia. Gli insegnanti, le insegnanti sono persone discrete. Il loro lavoro non è illuminato dalla luce dei riflettori. Sono all’attenzione dei media solo gli episodi di cronaca negativi, la scuola è narrata solo nelle sue debolezze. C’è bisogno di raccontare questo “mestiere” che è missione, questa fatica di cui essere orgogliosi.
Perché ci siano validi insegnanti abbiamo certamente bisogno di buone norme e di farle funzionare; abbiamo bisogno di rendere dignitose le retribuzioni, ma non solo. Abbiamo bisogno di uno sguardo riconoscente e valorizzante che sappia far vedere che l’insegnante è la persona che «accompagna ogni allievo nell’apprendimento, difficile ma essenziale, della capacità di essere esigenti e del superamento di sé. (…) l’insegnante ha un vero e proprio compito antropologico: invitare le persone a lui affidate a crescere in umanità.»(4).
Non serve reclutare persone con aspettative basse, che cercano rifugio in una professione impiegatizia, che poco chiede e poco offre. L’asticella non va abbassata, ma elevata. Ascoltiamo E. Morin: «Il carattere funzionale dell’insegnamento riduce l’insegnante a un semplice impiegato. Il carattere professionale dell’insegnamento porta a ridurre l’insegnante all’esperto. L’insegnamento deve ridiventare non più solamente una funzione, una specializzazione, ma un compito di salute pubblica: una missione.»(5).
Perché questo possa accadere, gli insegnanti non vanno lasciati soli.
(1) J. Bruner, La mente a più dimensioni, Laterza, Bari, 1988, p. 155.
(2) Cfr: I. Fiorin, La sfida dell’insegnamento, Mondadori, 2017, pp. 25-31.
(3) M. Baldacci, “Quale modello di formazione del docente. Ricercatore e intellettuale”, in: AA.VV., Idee per la formazione degli insegnanti, Fratelli Angeli, Milano, 2020, p. 31.
(4) P. Merieu, Chi vuole ancora gli insegnanti?, Armando, Roma, 2024, p. 17.
(5) E. Morin, La testa ben fatta, Raffaello Cortina, Milano, 2000, p. 10.