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• Podcast: Dacia Maraini
 La scuola ci salverà

 Vincenzo Alessandro
   Il principio di Peter

 

La scuola
ci salverà

Dacia Maraini legge

un brano tratto dal suo libro

La scuola ci salverà,

Solferino Edizioni, 2021.

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Scrittrice

(Fotografia di Giuseppe Moretti)

Dacia Maraini
00:00 / 04:26

Il principio 
di Peter

L’idea, condivisa da autorevoli osservatori, che sia necessario articolare la carriera docente in profili professionali di middle management per promuoverne il merito rischia di riproporre le contraddizioni e le aporie descritte nel libro The Peter Principle nel mondo della scuola.

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Già Segretario Generale

CISL Scuola Lazio

Risale al 1969 il libro The Peter Principle, Buccaneer Books, New York, 1969, scritto congiuntamente da due autori canadesi: lo psicologo Laurence J. Peter e lo scrittore Raymond Hull. Non tragga in inganno l’apparente paradosso dell’enunciato del Principio di Peter. Su di esso, non è difficile reperire in rete tesi di laurea e seriosi studi accademici. Il principio di Peter, o “principio di incompetenza”, si enuncia nei seguenti termini: In ogni struttura gerarchicamente ordinata, ciascun addetto tende a raggiungere il posto che corrisponde al suo livello di massima incompetenza. L’enunciato principale è poi corredato da due corollari: 


Primo corollario: “Con il tempo, ogni posizione lavorativa tende ad essere occupata da un addetto che non ha la competenza adatta ai compiti che deve svolgere” 
Secondo corollario: “Tutto il lavoro viene svolto da quegli addetti che non hanno ancora raggiunto il proprio livello di incompetenza” 


Superato lo sconcerto iniziale, non è difficile rendersi conto del fatto che, dietro lo stile umoristico degli autori, si agitano irrisolti problemi di organizzazione aziendale e di efficace utilizzazione delle risorse umane. In uno studio di tre accademici catanesi, Pluchino, Rapisarda e Garofalo, due fisici e un sociologo, si legge la seguente interpretazione del principio di Peter: “è evidente che si può essere un eccellente ricercatore ma un professore didatticamente inadeguato; un impiegato modello ma un disastroso manager; un eccellente soldato ma un cattivo comandante; un ottimo insegnante ma un pessimo preside; un professionista di successo ma un politico incompetente”1. Il punto è, dicono i tre studiosi, che il principio meritocratico si presta a un’interpretazione ingenua, anche se istintiva e di senso comune, per la quale aver operato bene nel settore di prima appartenenza implicherebbe la capacità di occupare posizioni sovraordinate, nelle quali, invece, cambiando spesso il tipo di competenze e abilità richieste, non è scontato che il risultato sia altrettanto brillante o anche solo soddisfacente.  


In uno studio successivo, i tre studiosi hanno persino costruito un modello computazionale che non abbiamo modo di analizzare estesamente, ma che in sostanza, ci dice che la perdita di efficienza individuata dal principio di Peter è tanto maggiore quanto maggiore è la diversità delle competenze richieste ai diversi livelli della scala gerarchica. Fin quando esiste un legame tra i due livelli (quello di partenza e quello di destinazione), la mobilità professionale è ancora capace di contenere la perdita di efficienza che deriva dalla minor competenza dell’operatore, ma, quando i profili professionali si differenziano, le conseguenze sono certamente deludenti in relazione alle aspettative2


Ciò in quanto i meccanismi premiali adottati dalle aziende si fondano, come si diceva, su un assunto indimostrato, ossia che le competenze sviluppate e rivelate nello svolgimento dei compiti assolti fino a un certo punto del proprio percorso lavorativo siano una garanzia ai fini dell’affidamento di mansioni del livello superiore, salvo scoprire che le competenze richieste dal nuovo ruolo non corrispondono al bagaglio professionale del lavoratore, né soprattutto alle sue attitudini. Peraltro, la continua ascesa di personale che tende ad occupare posizioni gerarchiche per le quali dispone di competenze via via minori (o, il che è lo stesso, di un’incompetenza crescente, fino al livello della massima incompetenza) porterà, a un certo punto a una gestione manageriale dello stesso tenore, in quanto anche il manager, scalando la gerarchia burocratica, avrà raggiunto il proprio livello di massima incompetenza (the final placement), e tenderà a circondarsi, per evidenti ragioni, di collaboratori che non gli facciano ombra e che presentino la caratteristica di uniformarsi quanto più possibile alle direttive. Siamo giunti, a questo punto, alla selezione negativa, che corrisponde al momento di massima sclerosi dell’organizzazione, la quale, quando si tratti di aziende sottoposte al regime concorrenziale, si sarà posta, così, nella condizione di dover uscire quanto prima dal mercato. 


È utile sapere che il secondo capitolo del libro di Peter e Hull, dal titolo The Principle in Action, è dedicato all’analisi dell’organizzazione scolastica di una cittadina americana. Pur mancando di un rigoroso apparato statistico a supporto, è difficile, per chi vive nella scuola, non riconoscere tratti di vita quotidiana negli esempi di incompetenza crescente riferiti dagli autori, con il solito stile umoristico: dal coordinatore degli insegnanti di scuola primaria che si rivolge ai propri colleghi utilizzando lo stesso linguaggio semplice e “didattico” che usava con i bambini (suscitando, così, la stizzita ostilità dei docenti), al responsabile di settore incapace di confrontarsi con problemi di budget, visto che anche il bilancio familiare era gestito dalla moglie, Peter e Hull ci fanno meditare e divertire al tempo stesso, regalandoci la sensazione di rivivere situazioni fin troppo note.  


Ora, l’idea, condivisa da alcune associazioni sindacali e da qualche autorevole osservatore, che sia necessario articolare la carriera docente in una serie di profili professionali di middle management per venire incontro alla necessità di promuovere il merito dei docenti, corre il rischio di riproporre le contraddizioni e le aporie del principio di Peter nel mondo della scuola, poiché è evidente che le capacità relazionali e il bagaglio tecnico propri della professione docente sono caratteristiche diverse da quelle che connotano le funzioni svolte dal middle management, categoria nella quale, a quanto si capisce, dovrebbero rientrare quanti svolgono funzioni di collaborazione con il dirigente scolastico, dal vicario (o collaboratore principale, che dir si voglia), ai vari responsabili di plesso o di settore (le funzioni strumentali).  


Di fronte a un insegnante capace, il buon senso suggerisce, piuttosto, che la cosa migliore da fare sia lasciarlo lavorare nel ruolo che gli è congeniale, in quanto ciò corrisponde a un preciso interesse sociale, ossia quello di avere un servizio scolastico all’altezza delle aspettative dell’utenza e delle esigenze del Paese. Distogliere un buon insegnante per avere un mediocre middle manager appare, invece, uno scambio di dubbia convenienza. Migliore, da questo punto di vista, la situazione attuale, nella quale le prestazioni aggiuntive extra-profilo, tra le quali rientra il middle management di cui certamente la scuola ha bisogno, trovano riconoscimento in termini di salario accessorio, con il vantaggio, in caso di necessità, del maggior grado di flessibilità organizzativa che viene garantito dall’assenza di un rigido meccanismo di carriera.  


Ultimo, ma non per importanza, il problema dei meccanismi di reclutamento del middle management, inteso come sviluppo di carriera della professione docente. Prove oggettive, di tipo concorsuale, con il rischio di premiare quelli che, più che all’insegnamento e all’innalzamento del suo livello qualitativo, si dedicano allo sviluppo della propria carriera, e quindi allo studio di quanto risulti utile a tale scopo? Osservando quanto accade già oggi, non è difficile immaginare quale sviluppo di offerta formativa a pagamento rivolta ai docenti conseguirebbe da questo meccanismo. E, soprattutto, quante preziose energie sarebbero distolte dal compito istituzionale dei docenti. Oppure, scelta da parte del dirigente, con il rischio, anche qui, di una selezione negativa (vedi sopra), volta più a premiare la fedeltà e l’ortodossia (o ciò che si ritiene tale) piuttosto che non il merito? In definitiva, il problema rimane sempre il solito: premiare, incentivare, valorizzare il lavoro d’aula, piuttosto che depauperarlo, sottraendogli le migliori energie.  

1 Principio di Peter, in Psicologia contemporanea, maggio-giugno 2010 
2 Pluchino, Rapisarda, Garofalo, “The Peter principle revisited: A computational study”, “Phisica A”, 389 pp. 467-472, 2010. 

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