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I modelli di inclusione
alla prova della realtà

Fra modelli e realtà, fra principi teorici e condizioni concrete,

su quale focus vogliamo concentrarci parlando di disabilità a scuola?

Le certificazioni per disabilità scolastica sono triplicate in vent’anni: quali sono i motivi?

Abbiamo strumenti di valutazione dell’inclusione, così come è praticata realmente, nelle nostre scuole? 

Dirigente scolastica e pubblicista 

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Cattedre disciplinari o cattedra di sostegno. Le prime sono tante, esiti di percorsi formativi i più disparati, insegnamenti più o meno coerenti con gli studi che hai fatto. La seconda strada parte da una specializzazione unica, relativa al tuo ordine di scuola. 

Ma poi nell’entrare in servizio si presentano le situazioni più disparate, e spesso all’antitesi del tuo back-ground. Sei laureata in lettere e affianchi una persona che segue chimica o costruzioni. Hai studiato estimo e ti ritrovi a lavorare in un indirizzo in cui dominano la psicologia e la filosofia. Scopri che nella realtà quelle che trovi sono tantissime diverse cattedre di sostegno, moltiplicate per infiniti diversi casi e situazioni personali. Perché la disabilità si scrive singolare, ma è inevitabilmente plurale. Drammaticamente plurale. C’è il ragazzo cognitivamente brillante che fatica però a decifrare gli strani segnali che si scambiano i suoi compagni e professori: di cosa ridono, a cosa alludono, cosa vuol dire davvero quello che dicono. C’è la bambina che sorride ai compagni, ma con la testa resta lontanissima dalle operazioni che gli altri stanno eseguendo, anche se abbraccia tutti. C’è il ragazzino irrequieto che scappa dalla classe e lo devi rincorrere. 

Ai corsi di aggiornamento hai imparato che l’aula H è il purgatorio: non proprio condannata, ma neanche giustificata. Non è inclusione portare i tuoi ragazzi in un’altra aula, ti hanno spiegato, ma ti rendi conto che quando la ragazzina che segui è fisicamente in classe e si fa storia, lei è come se non ci fosse. Lei è lì seduta, ma gli altri non sa in che mondo stiano. Perché ci sono anche mondi immateriali che si creano a scuola. E sedersi in classe non basta a volte per essere davvero con gli altri. 

Poi ci sono quei docenti, intorno al trenta per cento, che il titolo non ce l’hanno. Vengono catapultati senza specializzazione in un impegno che già per gli specializzati è una strada in salita. Le università escono con un numero di posti che, anche senza considerare il turnover, richiederebbe comunque decenni per colmare le necessità. Alcune università moltiplicano i percorsi, risolvendo la mancanza di titoli, ma in alcuni casi non quella di competenze. 

L’osservazione empirica e quotidiana degli insegnanti evidenzia un crescente ricorso alle richieste di certificazioni, di diagnosi DSA. Ovviamente, man mano che si è affinata non solo la consapevolezza pedagogica, ma anche la previsione normativa sull’inclusione, sono emersi casi che potevano, nei decenni precedenti, restare nell’ombra un po’ opaca dell’insuccesso formativo generico. 

I numeri crescenti e le disomogeneità territoriali sembrano però confermare la sensazione che, mentre nei decenni passati da parte delle famiglie si accettava malvolentieri e con timore una diagnosi relativa a difficoltà cognitive o comportamentali, oggi vi si faccia ricorso con risolutezza e quasi con sollievo. Come se di fronte al disagio o ai primi segnali di insuccesso scolastico alcuni genitori si sollevassero da ansie e frustrazioni consegnando ad una constatazione di ordine clinico la difficoltà scolastica, al di fuori della loro responsabilità educativa. Ciò non è privo di rischi: ridimensionare le aspettative sul bambino può produrre un anti-effetto Pigmalione, sottovalutando le sue potenzialità e svalorizzandolo. 

Ci sono famiglie munite di una dedizione combattiva e consapevole, di fronte alla disabilità dei figli; famiglie con cui si possono creare alleanze molto costruttive. Ma ci sono anche famiglie la cui difficoltà a farsi carico dei compiti genitoriali con generosità e saldezza si intreccia in modo complesso alle fragilità che emergono nei figli: pensiamo all’impatto che sulla maturazione di alcune abilità di letto-scrittura, di pensiero logico, di capacità espressive ha la deprivazione da letture e libri, colloqui e ragionamenti, stimoli musicali o artistici, soprattutto quando viceversa i ragazzini sono catturati da ore e ore di gioco o scrolling sul cellulare.

 

La scuola che non può e non deve ascriversi compiti terapeutici, opera però all’interno di categorizzazioni e tipologie definite medicalmente che segnano le differenze. Il problema è se non stiamo perdendo di vista l’orizzonte semplicemente educativo medicalizzando ogni difficoltà e derubricando ogni scoglio di tipo educativo a diagnosi. 

I dati confermano la crescita impressionante del ricorso a certificazioni: nel giro di 22 anni i casi di disabilità sono passati dal 1,3% della popolazione scolastica al 4,1 del 2022/23 (Rapporto Istat) arrivando a 338.000. A cui si aggiungono dal 2010 le diagnosi DSA e più recentemente l’introduzione di Bisogni Educativi Speciali. 

Secondo i dati del ministero, risalenti a due anni fa, nel passaggio dal primo ciclo al secondo la popolazione con disabilità scende dal 4,5% al 3%. In realtà, se consideriamo che la popolazione scolastica con disabilità è, nell’ultimo anno su cui abbiamo dati, cresciuta del 7%, resta arduo fare confronti in verticale perché solo pochi anni fa, quando gli attuali studenti delle superiori erano alla secondaria di primo grado, la popolazione scolastica con disabilità era percentualmente nettamente più bassa. 

Ma gli stessi dati sul tipo di disabilità sono differenti nei diversi ordini: nel secondo ciclo quella intellettiva raggiunge quasi la metà dei casi di disabilità, mentre i disturbi dell’attenzione e del comportamento calano relativamente. Perché quelli che hanno tali disturbi abbandonano in maggior misura gli studi o perché cambiano le diagnosi? Non lo sappiamo. Non abbiamo dati longitudinali. 

Oggi da una parte si afferma la necessità di professionalizzare i docenti di sostegno tramite una carriera tutta dentro le didattiche speciali. Dall’altra parte si chiede la cattedra inclusiva per la quale il docente disciplinare, adeguatamente formato, operi su tutti gli alunni riconducendo la disabilità entro la pluralità di stili cognitivi in un approccio olistico. 

Dall’inserimento all’integrazione, fino all’inclusione si sono affinati diversi modelli teorici. Come spesso accade nel mondo dell’educazione, l’esperienza concreta non sempre collima con le teorie: l’inclusione nella classe della persona con disabilità, l’attenzione a intercettare le sue abilità e a svilupparle è importante, ma non è salvifico. 

Spesso la scuola si sente imponente di fronte alla carenza di approcci specialistici e mirati, all’assenza di riabilitazioni di funzioni che non si sa come far evolvere. L’incongruenza di solito si risolve assegnando ai docenti la colpa del gap fra teoria e realtà: a volte mi domando se anche il pensiero pedagogico non dovrebbe piegarsi di più al compito di analisi e di comprensione della realtà, piuttosto che al disegno dei migliori mondi possibili. 

Non sappiamo molte cose: la valutazione sul sistema scolastico non prevede indagini esaustive e definitive su quanto la scuola riesce a far crescere le persone con disabilità, quanto riesce realmente a rispondere ai loro bisogni. Forse bisognerebbe ripartire da questo. 

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