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A scuola di felicità
con Matilde Gulmanelli
 

Possiamo decidere sulla prospettiva
dell’utile quale facoltà frequentare?
Possiamo tenerci un impiego
alienante, mal pagato, fonte
di malessere solo per non sembrare
dei perdenti? Il fallimento non è alla
base del processo di maturazione?
Le risposte, per Matilde Gulmanelli,
autrice del saggio “Fuga dal lavoro”,
si trovano fra i banchi di scuola.

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Content Media Manager

& PR per Edizioni Lavoro,
podcaster di “Protagoniste”

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Prima di arrivare a “Fuga dal lavoro”, il libro di Matilde Gulmanelli(1) sul fenomeno delle grandi dimissioni in Italia edito da Edizioni lavoro, avevo letto un altro testo che, in maniera diversa e soffermandosi su altre tematiche, esaltava il ruolo della scuola come luogo in cui formarsi, più che come persone dotte o sapienti, come esseri umani consapevoli e in viaggio verso la costruzione di se stessi.


Secondo Nuccio Ordine, autore de “L’utilità dell’inutile”, infatti, la scuola non deve trasformarsi in un’azienda che produce nuovi diplomati, né l’università può essere considerata al pari di un’impresa che ottiene maggiori finanziamenti in base al numero di laureati che riesce a sfornare. L’obiettivo dell’educazione che riceviamo a scuola o all’università non può essere misurato in termini economici né secondo fini utilitaristici. Le istituzioni scolastiche devono renderci persone libere, capaci di pensare e dubitare e instradarci verso la nostra più completa realizzazione umana oltre che professionale. Devono aiutarci a venire alla luce. Allo stesso modo, il lavoro o un’occupazione professionale non deve per forza ridursi all’attività che ci permette di vivere dandoci stabilità economica. Possiamo esprimerci, espanderci, fiorire anche attraverso il nostro lavoro e questo bisogno assume ancora più importanza nel contesto della great resignation in cui “molti individui sembrano mettere in discussione il tradizionale concetto di lavoro come valore in sé”.


Se “per alcuni lavorare significa solamente scambiare il proprio tempo per un salario […] per altri, invece, la professione svolta ha un significato ben maggiore e il valore prodotto va oltre la gratificazione economica o l’utile aziendale, perché riguarda una generale concezione di contributo alla comunità”. Se ci pensiamo, non è questo il contributo che dovrebbero dare anche la scuola e l’università? Il loro fine ultimo non è la produzione, il loro principale obiettivo non è la ricchezza economica, ma la costruzione di una società più sana, più giusta, più equa attraverso la formazione di cittadini e cittadine responsabili e consapevoli.


Ma da quando il lavoro non è più un valore in quanto tale? Dove ha origine questo ribaltamento di prospettiva? Il volume di Matilde Gulmanelli ci guida alla scoperta del fenomeno delle grandi dimissioni attraverso la ricostruzione temporale delle cause e la raccolta di alcune testimonianze dirette di persone che hanno deciso di lasciare il proprio impiego per intraprendere nuove avventure personali e professionali, auspicabilmente più soddisfacenti, più interessanti e più arricchenti.


All’origine del fenomeno delle grandi dimissioni c’è la pandemia da Covid-19 che ha fatto da innesco al malessere latente e mai esplorato che è esploso nel periodo in cui i lavoratori hanno sperimentato il lavoro da remoto, lo smart working e modelli più flessibili. In poche parole, da quando abbiamo scoperto che non siamo il nostro lavoro e che il nostro impiego non può occupare tutto il nostro tempo perché “si vive una volta sola”. È in questa frase che è racchiuso il senso della Yolo Economy, acronimo di “you only live once”: a partire dalla fine del 2021 le prospettive professionali dei lavoratori sono cambiate abbandonando l’idea del posto fisso come primario obiettivo di felicità e abbracciando una filosofia del lavoro in cui è più importante la soddisfazione personale e la qualità della vita, rispetto alla stabilità a lungo termine.


Insieme a Matilde Gulmanelli si scoprono altre strategie adottate dai lavoratori per ribellarsi alla cultura dello stakanovismo e del lavoro come principale ragione di vita o come unico mezzo per crescere ed evolvere: ad esempio il fenomeno del quite quitting (rinuncia silenziosa) che vede i lavoratori restare al proprio posto ma con distacco e minore partecipazione al lavoro.


Ciò che sembra illuminare la riflessione di Gulmanelli è un interrogativo fondante: “Cosa è di valore per me?” “Quali sono le caratteristiche che un lavoro deve avere affinché porti valore alla mia vita?” E il merito del volume non è fornire risposte univoche. A partire dalla propria esperienza personale, Gulmanelli ha indagato le motivazioni che hanno spinto altri grandi dimissionari come lei a fare la stessa scelta, riportando nella seconda parte del libro le voci uniche e le esperienze differenti di queste persone. Immergersi nelle loro storie allarga l’orizzonte, ci permette di uscire dal vicolo cieco delle convinzioni che hanno reso il lavoro un fine per sentirci “arrivati” e non un mezzo per conoscerci meglio e capire cosa ci rende felici.


E qui le strade dei due libri, quello di Nuccio Ordine e il volume di Gulmanelli si ricongiungono: possiamo far decidere alla prospettiva dell’utile, del profitto, dello status quale facoltà frequentare o quale carriera intraprendere? Possiamo tenerci un impiego che non ci dà alcuna gioia, mal pagato, fonte di malessere e alienazione solo per paura di sembrare dei perdenti? Il fallimento non è alla base di quel processo di maturazione che ci permette di germogliare? La logica della performance e il mito del successo (solo un tipo di successo) servono a donarci una vita appagante? Ci conducono verso un lavoro che rispecchi i nostri valori e in cui possiamo esprimere il nostro potenziale e i nostri talenti?


La risposta, anche secondo Gulmanelli, è fra i banchi di scuola, nelle aule universitarie. È qui che bisogna insegnare a vivere, a sbagliare, a provare, a dubitare e a pensare senza mirare all’esito, al punteggio, all’utile, ma al percorso. Sostenendoci mentre curiosiamo dentro di noi, puntando a farci scoprire chi siamo e cosa vogliamo, permettendoci di individuare il nostro scopo che nel tempo può cambiare così come cambiamo noi, la scuola assolve il proprio compito. La scuola può aiutarci a comprendere quali sono le nostre inclinazioni, i nostri desideri e le nostre abilità e solo forti di questa consapevolezza saremo in grado di scegliere il lavoro più adatto a noi che non è lo stesso per tutti. Esistono tanti modi per prenderci cura del nostro “demone interiore”, per sviluppare il nostro potenziale e per realizzarci professionalmente, tanti quanti siamo su questa terra. E la scuola ha il grande dovere e l’immenso privilegio di insegnarci a viaggiare fornendoci una nave e gli strumenti di navigazione. Una volta che la nave sarà fuori dal porto avremo imparato a stare in mare aperto, allora sceglieremo la nostra rotta tenendo a mente che non saremo mai l’approdo ma l’equipaggio che esplora.


(1) Matilde Gulmanelli, laureata in Giurisprudenza, trascorre la prima parte della carriera nell’industria farmaceutica, nell’ambito del marketing. Diventa grande dimissionaria nel 2022, all’età di 36 anni, per dare vita a un progetto imprenditoriale di comunicazione. Parallelamente, crea un blog e un podcast sulla great resignation e alla ricerca di un giusto e sano equilibrio tra vita privata e lavorativa.
 

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