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autonomia 

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Autonomia
differenziata,
DDL Calderoli e
unitarietà del
sistema scolastico

Regionalizzare completamente la programmazione del sistema scolastico non è irrilevante sull’unità nazionale. Si corre il rischio di una profonda divisione tra i cittadini: la qualità dell’istruzione impartita varierebbe da Regione a Regione. Entro quali limiti un intervento di differenziazione in materia è conforme alla Costituzione? 

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Ordinario di Diritto Costituzionale - Università di Roma Tre 

Seminario formativo - 20/06/2023    IRSEF/IRFED

1. Da mesi si parla di autonomia differenziata, come strumento per dare una maggiore flessibilità ai nostri territori. Cerchiamo di capire bene di che si tratta.

L’autonomia differenziata è stata prevista con la modifica costituzionale del 2001. Nella sua versione iniziale, il testo dell’art. 116 della Costituzione si limitava a prevedere che: “Alla Sicilia, alla Sardegna, al Trentino-Alto Adige, al Friuli-Venezia Giulia e alla Valle d’Aosta sono attribuite forme e condizioni particolari di autonomia, secondo statuti speciali adottati con leggi costituzionali”. L’art. 2, comma 2, della L. Cost. 18 ottobre 2001, n. 3 (“Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione”), ha profondamente modificato l’articolo in esame, il cui “assetto” attuale è articolato nei termini che seguono: “…3. Ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, concernenti le materie di cui al terzo comma dell’articolo 117 e le materie indicate dal secondo comma del medesimo articolo alle lettere l), limitatamente all’organizzazione della giustizia di pace, n) e s), possono essere attribuite ad altre Regioni, con legge dello Stato, su iniziativa della Regione interessata, sentiti gli enti locali, nel rispetto dei principi di cui all'articolo 119. La legge è approvata dalle Camere a maggioranza assoluta dei componenti, sulla base di intesa fra lo Stato e la Regione interessata”. 

L’art. 116 Cost. rappresenta, allo stato attuale, ossia dopo l’entrata in vigore del testo riformato, un elemento di “rottura” nel sistema delineato dal Titolo V della seconda parte della Costituzione: tale disposizione finisce per interrompere l’omogeneità dello stato regionale “tipico”, consentendo un terzo tipo, ulteriore modello di differenziazione regionale. Praticamente un nuovo tipo di possibile autonomia rispetto alle due tipologie tradizionali di Regioni: a statuto ordinario e a statuto speciale. 

Ora, il procedimento dell’art. 116, terzo comma, volto ad ampliare le attribuzioni delle “altre Regioni”, ha come fondamento una logica funzionale, in quanto è teso a modulare gli ambiti d’azione delle autonomie regionali in relazione alle rispettive potenzialità di gestione degli interessi collettivi. 

Da ciò discende l’imprescindibile corollario per il quale l’assegnazione dei nuovi spazi di intervento deve essere legata alla capacità concreta della singola Regione richiedente, la quale dovrà necessariamente concordare l’assunzione di nuovi compiti con lo Stato. 

L’attuazione di questa disposizione ha, tuttavia, presentato delle criticità a causa della mancanza di un quadro unitario di riferimento, in grado di assicurare, in caso di avvio del processo di differenziazione delle competenze fra le Regioni il rispetto degli obiettivi di autonomia e decentramento che si collocano alla base della citata norma costituzionale e dei principi di unità ed indivisibilità della Repubblica di cui all’articolo 5 della Costituzione. Non a caso, dal 2001 ad oggi non è mai stato concretamente applicato questo strumento, anche se è stato rivendicato da molti territori, spesso come bandiera “politica”. 

2. In questo contesto, dunque, si colloca il disegno di legge A.S. 615 (c.d. Decreto Calderoli) che contiene le disposizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata delle Regioni a statuto ordinario ai sensi dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione. 

Secondo lo schema delineato dal disegno di legge, il trasferimento delle funzioni, con le relative risorse umane, strumentali e finanziarie, concernenti materie o ambiti di materie riferibili ai LEP, può essere effettuato, secondo le modalità e le procedure di quantificazione individuate dalle singole intese tra Stato e Regione, soltanto dopo la determinazione dei medesimi LEP e dei relativi costi e fabbisogni standard. 

Spetta al Presidente del Consiglio dei ministri, con D.P.C.M., adottare il decreto di determinazione dei LEP, previa deliberazione del Consiglio dei ministri. 

Il procedimento di approvazione delle intese è invece disciplinato all’art. 2 del disegno di legge. In particolare, si prevede che l’atto d’iniziativa sia deliberato dalla Regione, sentiti gli enti locali, secondo le modalità e le forme stabilite nell'ambito della propria autonomia statutaria. L’atto è trasmesso al Presidente del Consiglio dei ministri e al Ministro per gli affari regionali e le autonomie che, acquisita entro trenta giorni la valutazione dei Ministri competenti per materia e del Ministro dell'economia e delle finanze, avvia il negoziato con la Regione richiedente ai fini dell’approvazione dell’intesa. 

Lo schema di intesa preliminare negoziato tra Stato e Regione, corredato di una relazione tecnica redatta, è approvato dal Consiglio dei ministri ed è immediatamente trasmesso alla Conferenza unificata per l’espressione del parere. Dopo che il parere è stato reso dalla Conferenza unificata, lo schema di intesa preliminare è immediatamente trasmesso alle Camere per l’esame da parte dei competenti organi parlamentari, che si esprimono con atti di indirizzo, udito il Presidente della Giunta regionale interessata. 

Il Presidente del Consiglio dei ministri o il Ministro per gli affari regionali e le autonomie, valutato il parere della Conferenza unificata e sulla base degli atti di indirizzo degli organi parlamentari e comunque, una volta decorso il termine di sessanta giorni, predispone lo schema di intesa definitivo al termine di un ulteriore negoziato, ove necessario. Lo schema di intesa definitivo è trasmesso alla Regione interessata, che lo approva secondo le modalità e le forme stabilite nell'ambito della propria autonomia statutaria, assicurando la consultazione degli enti locali. 

Con lo schema di intesa definitivo, il Consiglio dei ministri delibera un disegno di legge di approvazione dell’intesa, che vi è allegata ed è immediatamente trasmesso alle Camere per la deliberazione, ai sensi dell'articolo 116, terzo comma, della Costituzione. 

L’intesa raggiunta tra Stato e Regione ha una durata di dieci anni, trascorsi i quali, se l’autorità nazionale o quella locale non abbiano espresso una volontà diversa, si intende rinnovata per ulteriori dieci anni. 

Si tratta di un D.D.L. ancora incompleto, perché presuppone la esatta definizione dei LEP e dei loro costi, prima di poter essere concretamente operativo. 

In fondo l’autonomia differenziata è un “contenitore vuoto” che può e deve essere riempito in maniera “seria”, affinché sia una opportunità di sviluppo competitivo fra i territori e non uno strumento che rischi soltanto di dividere ulteriormente il Paese. 

3. Premesso un quadro normativo sul tema dell’autonomia differenziata, occorre ora soffermarsi su ciò che in questa sede maggiormente interessa: il diritto all’istruzione. 

Va ricordato che la materia istruzione rientra a pieno titolo tra quelle per le quali la nostra Costituzione prevede “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia”. 

Infatti, le materie che vengono in rilievo ai fini dell’applicazione dell’art. 116, comma 3, della Costituzione sono quelle oggetto di legislazione concorrente, fra cui la “istruzione” (art. 117), e tre materie rientranti nella legislazione esclusiva statale, fra cui le “norme generali sull’istruzione” (art.117, c. 2, lett. n). 

L’autonomia differenziata, se adeguatamente contestualizzata, è leggibile come il culmine di un processo evolutivo iniziato con la Legge 15 marzo 1997 n. 59, la quale, introducendo “l’autonomia delle istituzioni scolastiche e degli istituti educativi”, ha avviato un processo di riorganizzazione dell’intero sistema formativo, il cui fine ultimo è appunto la nascita della scuola delle Regioni. 

Peraltro, questo è l’obiettivo delineato della Carta di Genova, atto programmatico della Conferenza delle Regioni e delle Province autonome nell’ambito del Convegno Nazionale sulla Riforma dell’Orientamento, svoltosi a Genova durante il Salone Orientamenti 2021. 

Ove l’istruzione fosse materia su cui le Regioni a Statuto ordinario possono legiferare, si assisterebbe alla modifica delle norme generali vigenti in materia di istruzione, contenute nel D.Lgs 16 aprile 1994, n. 297 “Testo Unico delle disposizioni legislative vigenti in materia di istruzione”, a cui fa riferimento il personale della scuola di ogni ordine e grado. 

Nella categoria delle norme generali sull’istruzione, rientrano materie fondamentali quali: l’istituzione di scuole di ogni ordine e grado; la disciplina dell’obbligo scolastico; le attrezzature scolastiche, i libri di testo; le valutazioni; gli esami, diplomi e attestati; le tasse; la sperimentazione, la ricerca educativa, la formazione e l’aggiornamento; le norme sul personale e sul reclutamento; la mobilità; i congedi e le aspettative. 

Con l’attuazione dell’autonomia differenziata le Regioni potranno determinare i programmi dell’offerta formativa e didattica, potranno avere un proprio fondo regionale a cui ricorrere in caso di necessità e potranno finanziare nuove attività, con risorse ulteriori rispetto al fondo di finanziamento statale. 

Regionalizzare completamente la programmazione del sistema scolastico – materia oggi di competenza concorrente – non è irrilevante in termini di impatto sull’unità nazionale. 

Si corre il rischio di una profonda divisione tra i cittadini italiani, relativa alla qualità dell’istruzione impartita, che varierebbe da Regione a Regione. 

Occorre domandarsi, quindi, entro quali limiti un intervento di differenziazione in materia sia conforme a Costituzione. 

Se la differenziazione rappresenta un utile strumento in mano al legislatore per colmare lacune e falle del sistema scolastico, questo non significa che ogni forma di differenziazione sia utile allo scopo. 

Leggiamo l’art. 33 della Costituzione: «La Repubblica detta le norme generali sull’istruzione ed istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi». 

La Costituzione chiarisce che spetta allo Stato definire le norme generali in materia di istruzione e non alle singole Regioni. 

Questo ruolo dello Stato è stato adeguatamente valorizzato anche dal giudice costituzionale, il quale ha chiarito da tempo che «l’obbligo di istruzione appartiene a quella categoria di “disposizioni” statali che definiscono la struttura portante del sistema nazionale di istruzione e che richiedono di essere applicate in modo necessariamente unitario e uniforme in tutto il territorio nazionale, assicurando, mediante una offerta formativa omogenea, la sostanziale parità di trattamento tra gli utenti che usufruiscono del servizio di istruzione» (Corte cost., sentenza n. 309/2010). 

Del resto, come sottolineava l’On. Marchesi durante i lavori dell’Assemblea costituente “quando si voglia entrare nel campo della scuola, che è un fatto eminentemente morale, nazionale, e perciò politico, lo Stato non può rinunciare a questo che è l'unico strumento e l'unica garanzia dell'unità nazionale. Soltanto allo Stato, per la molteplicità dei suoi poteri e per la pluralità dei suoi mezzi, spetta il compito di ordinare, di controllare l'istituzione e di conferire titoli legali allo studio”. 

È questa la ratio che deve essere preservata quando si parla di diritto all’istruzione. 

Non si tratta soltanto di allocare competenze, ma di garantire una scuola pubblica e democratica, fondata sull’uguaglianza dei diritti e sulla libertà di insegnare e imparare. In una repubblica una e indivisibile. Perché, come ricordò Piero Calamandrei, l’organo più importante in una democrazia non è il Parlamento, ma la scuola, perché è la scuola che prepara i cittadini a partecipare alla democrazia. 

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