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L'economia è politica
Un saggio di Clara E. Mattei
tra economia, politica e ideologia
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L'economia è politica
Un saggio di Clara E. Mattei
tra economia, politica e ideologia
Nel libro “L’economia è politica”
Clara E. Mattei rivendica la storicità
delle scelte economiche e il fatto
che nessun provvedimento
economico sia mai realmente neutro:
l’economia come scienza pura
non esiste. L’economia concreta
non deriva da grafici astratti studiati
a tavolino, anche se l’aspetto
quantitativo non può essere ignorato.
Già Segretario Generale
CISL Scuola Lazio
È ormai invalsa una certa tendenza, probabilmente indotta dalla lingua inglese, ad indicare con una sola parola – Economia (Economics) – lo studio dei fenomeni economici che si svolgono a livello di collettività umane.
Fino a qualche anno fa, invece, la materia era più usualmente indicata, nella pubblicistica, come economia politica, complice, anche qui, l’influsso di un’altra lingua, il greco antico, nel quale affonda le proprie radici l’etimo della parola economia, che deriva da casa (oikos) e legge (nomos) e originariamente costituiva, quindi, l’insieme delle leggi che presiedono al buon andamento del focolare domestico.
Seguendo il filo dei ragionamenti proposti da Clara E. Mattei(1), nel suo L’economia è politica, Milano, RCS Media Group, 2023, si può ipotizzare che la progressiva desuetudine dell’aggettivo che lega l’economia alla politica abbia anche un senso ulteriore, oltre allo sbiadimento del legame con le lingue antiche. Si tratterebbe, cioè, della volontà, più o meno esplicita, di sottrare l'economia all’aura di opinabilità che connota la politica.
A partire dagli ultimi decenni dell’800, con la nascita della cosiddetta corrente neoclassica della teoria economica, la disciplina enuncia la propria ambizione ad acquisire lo stesso statuto epistemologico delle scienze esatte, ossia di porsi come corpo dottrinale dotato di sicura capacità predittiva, fondata sull’oggettiva validità delle proprie leggi.
L’analisi economica comincia a dotarsi di un potente apparato matematico, a elaborare modelli teorici mediante i quali interpretare la realtà, talora anche a costo di qualche forzatura, e, infine, a rivendicare la collocazione delle proprie enunciazioni sul piano delle scienze esatte. Sicuramente, non un atto di modestia culturale, specialmente se confrontato con il realistico pragmatismo di altre scienze sociali, le quali, nella consapevolezza della complessità dell’indagine dei fenomeni collettivi, che non può oggettivamente fondarsi su sperimentazioni di laboratorio, si limitano a formulare ipotesi di lavoro e a cercarne la conferma sul piano quantitativo, senza l’ausilio di un modello precostituito. Impostazione tanto più apprezzabile da quando il Novecento ha definitivamente reso relative e falsificabili, con Einstein e Popper, le stesse leggi sperimentali.
Sarà forse per via del loro approccio diacronico ai fenomeni sociali, che li porta a studiare il concreto svolgimento temporale dei fatti, che spesso i critici più pungenti della pretesa esattezza degli economisti siano gli storici, ovvero i cultori della disciplina che meglio si adatta a sottoporre alla verifica del tempo le analisi e le teorie economiche.
Lo storico inglese Thomas Carlyle, avendo a mente le fosche previsioni di Malthus circa il divario tra risorse alimentari e popolazione mondiale (peraltro non confermate dai fatti, problemi distributivi a parte) stigmatizzò l’economia come scienza triste (dismail science).
In effetti, da questo punto di vista, ha ragione Clara E. Mattei. Effettivamente, nella sua essenza, L’economia è politica, come recita il titolo del suo libro, perché nessun provvedimento economico è mai realmente neutro. L’economia come scienza pura esiste quanto l’homo oeconomicus, cioè zero carbonella.
Non è dato riscontrare in natura nessun individuo perfettamente razionale, capace di impiegare le proprie risorse secondo criteri di massima soddisfazione e minimo mezzo, così come di fatto appare essere un’astrazione lo stesso concetto di libera concorrenza, che presuppone un’atomizzazione, sia dal lato dell’offerta sia da quello della domanda, davvero difficili da riscontrare nella concreta realtà di mercato.
Quanto, poi, all’idea che il mercato svolga con efficacia ed efficienza il compito di allocare in modo ottimale le risorse produttive (la nota “mano invisibile del mercato”, di Adam Smith), in effetti le storture da esso prodotte sono tante e tali che possiamo esonerarci dal trattare l’argomento, con ciò non negando il suo ruolo, ma affermando la necessità di dirigerlo a fini sociali.
Eppure, su queste e altre irrealistiche semplificazioni si basava (si basa?) l’economia che aspira all’esattezza, dimenticando che, come insegna la logica formale, non si può giungere a risultati esatti a partire da presupposti approssimativi. Nato sul piano microeconomico, questo approccio ha progressivamente connotato la scienza economica tout court. Esso è stato tipico del cosiddetto indirizzo “neoclassico”, delle correnti liberiste e monetariste che si sono snodate lungo l’800 e il 900, ma, talora, sembra ancora operare in “background” nel pensiero e nell’azione degli economisti, quando tendono a presentare certe loro enunciazioni con la sicurezza di chi sta affermando una verità indiscutibile.
L'autrice rivendica la concretezza, la storicità e la non asetticità delle scelte economiche, principi sui quali non si può non concordare. La parte migliore del suo libro è quella che riconsidera criticamente la storia economica italiana tra il biennio rosso e l’affermazione del fascismo, laddove Clara Mattei analizza non solo gli eventi storici, ma le stesse figure degli economisti “mainstream” (qualcuno è assurto nel frattempo al rango di padre della patria, oltre che della disciplina economica), di cui mette in evidenza in modo documentato anche i pregiudizi personali che inquinano le loro dottrine, riportando così l’economia con i piedi per terra e demistificando il segno ideologico, in senso marcatamente neoliberista, che ancora oggi caratterizza certe verità economiche di cui si afferma il valore assoluto.
Se l’economia concreta non deriva da grafici astratti studiati a tavolino, e se non enuncia verità sempiterne (come non pretendono più neanche le scienze di laboratorio tuttavia, non si può ignorare il carattere quantitativo della disciplina, condizionata dalla disparità tra bisogni (potenzialmente illimitati) e risorse (purtroppo inferiori rispetto ai bisogni).
Il sistema economico genera, quindi, in forza di ciò, un quadro di “compatibilità” di cui non si può non tenere conto in alcuni frangenti. Spesa pubblica in conto capitale o di parte corrente, cioè investimenti o consumi? Redistribuzione dei redditi a favore del capitale o della forza lavoro? Burro o cannoni(2)?
L’economia vive di scelte, di alternative, ed è appunto questo il lato politico della disciplina.
Il movimento dei lavoratori ha imparato che il percorso verso una società più giusta passa anche attraverso la necessità di governare le contingenze, in attesa che maturino le condizioni per quelli che, una volta, si definivano “equilibri più avanzati”.
Quando l’Italia dovette affrontare un periodo di inflazione a due cifre, che metteva in discussione, in primo luogo, la tenuta dei redditi fissi, ossia salari e stipendi, aver rallentato la dinamica dei prezzi con una misura antinflazionistica, come fu la sterilizzazione dei meccanismi automatici che determinavano la rincorsa tra prezzi e salari (la famosa scala mobile), fu un atto di direzione politica del mercato. Allo stesso modo, non sembra condivisibile l’idea dell’assoluta incompatibilità tra democrazia e capitalismo, che Mattei enuncia in termini forse troppo perentori.
L’economista Napoleoni Colajanni (1926-2005) in un suo libro postumo, dal titolo indicativo, Capitalismi(3), avvertiva che oggi esistono tanti tipi di capitalismo quante sono le possibili combinazioni dei tratti fondamentali del capitalismo stesso, per cui occorre evitare il pericolo di ipostatizzarne alcune caratteristiche e non vedere la complessità del fenomeno. Il capitalismo, anzi, i capitalismi, per dirla con Colajanni, hanno dimostrato di essere compatibili con la democrazia, con la dittatura nazifascista e persino con l’ideologia collettivista del comunismo, come ci dice ormai da anni lo stupefacente ossimoro cinese.
La soluzione, secondo Mattei, starebbe in un’assunzione insieme di consapevolezza e realizzazione di pratiche sociali di democrazia economica. “La nostra consapevolezza politica può aumentare se partecipiamo a progetti collettivi che producono spazi per la democrazia economica”. Ma questo non è ciò fanno da sempre i riformisti?
(1) Clara E. Mattei è Associate Professor presso la New School for Social Research di New York.
(2) Espressione ricorrente nel linguaggio della politica e dell’economia, per indicare il trade off, lo scambio tra una alternativa e l’altra, tra un’economia di pace e sviluppo (il burro) o di guerra (i cannoni).
(3) Napoleone Colajanni, Capitalismi, Milano, Sperling e Kupfer, 2006.