Meritocratici
o meritocritici?
Le grandi rivoluzioni etiche della storia hanno messo in discussione l'idea dominante di merito. Una civiltà meritocratica è una civiltà ingrata,
che non riconosce agli altri, al mondo, alla scuola, ai genitori, allo Stato
quanto c'è nel proprio merito,
nei propri successi, di dono,
di Provvidenza. Rimettere in discussione il concetto facendo un po' di merito-critica è un modo anche
per aumentare la riconoscenza,
una virtù fondamentale e dimenticata che è il cemento della civiltà.
Professore ordinario presso l’Università LUMSA di Roma
Trascrizione dell'intervento
Grazie mille, grazie per l'invito davvero a Ivana e a tutto lo staff che ha organizzato questo evento. Io con voi dialogo da molti anni, quindi sono felice di essere qui. Ringrazio anche il ministro che ha accettato di essere presente e non è sempre così: i ministri ultimamente adducono impegni di carattere superiore, invece lui c’è, e di questo sono grato. Ringrazio anche tutti i colleghi e tutti voi, ma siccome il tempo è poco, entro subito nel discorso. Diciamo subito che il merito è una bella parola. Ecco perché è soggetta a manipolazione: perché è una cosa bella, che ci piace. Attorno al merito c'è un dibattito che comincia almeno 2.500 anni fa con il libro di Giobbe, che è tutto costruito attorno al merito. Io mi sono occupato di Giobbe anni fa. È un tema che poi torna fortemente con Cristo, basta pensare alle sue parabole: parlo di quella degli operai dell’ultima ora, di quella del fratello del figliol prodigo e della parabola dei talenti, che però è tutto fuorché una lode della meritocrazia. Su questo, se volete, possiamo tornare, basta studiarla: i talenti vengono donati dal padrone ai servi, non vengono in qualche modo meritati.
Poi torna fortemente nel dibattito tra Pelagio e Agostino, quindi siamo nel IV-V secolo, e continua con tutti i Pelagiani e gli Agostiniani. Ritorna con Lutero, con la Riforma e la Controriforma, sino al libro che abbiamo appena editato di Melchiorre Gioia, “Del merito e delle ricompense”, che è un libro costruito attorno all'idea di merito, che chiaramente riprende un dibattito che c'era in quel tempo. È legato, il merito, all'etica delle virtù. Ecco perché ci piace: perché il merito è l'altra faccia della virtù, e quindi c'è un'empatia naturale tra la gente e il merito; la gente simpatizza, empatizza con il merito perché lo vede come una forma più alta di giustizia, come una lotta all’ineguaglianza, e quindi c'è un'antipatia naturale con chi parla male del merito, tipo me.
Di primo acchito si rifiuta un ragionamento critico sul merito, perché sembra una sorta di lode per i fannulloni, per i demeritevoli, per i raccomandati, per il caso, per la fortuna, tutte cose che non ci piacciono. Quindi questo è un punto di partenza: il merito è qualcosa che ci piace. Tutti vorremmo che i nostri figli prendessero nove o dieci per merito e non per caso, che il nostro posto di lavoro sia nato dal merito e non da raccomandazioni, e lo stesso vale per quello dei chirurghi, dei medici attorno a noi, dei professori dei nostri figli.
Sgombrato il campo da critiche banali a chi critica il merito - perché non è che gente come me che dai dieci anni lavora a queste cose non sa che il merito è qualcosa di complesso, di importante, su cui da 2500 anni si ragiona, e che immensi teologi e filosofi se ne sono occupati - lavoriamo ad un livello un po’ più sofisticato della ‘lode ai raccomandati’, e un po’ più complesso. Perché? Innanzitutto bisogna distinguere il merito della meritocrazia, perché la meritocrazia è l'ideologia del merito, che è una cosa più precisa rispetto al merito, ed è una costruzione di fatto degli ultimi 70 anni – non a caso si citava prima Michael Young (il cui testo “L’avvento della meritocrazia” è del 1958, ndr). Allora che cosa dovremmo dire, innanzitutto? Che le grandi rivoluzioni etiche della storia, da Giobbe fino alla rivoluzione nella scuola di una Montessori o di un Don Milani - quest’anno si festeggia il centenario, e sono anche onorato di essere nel comitato nazionale per Don Milani, forse mi ci hanno messo per questi lavori sul merito, non lo so - hanno messo in discussione l'idea dominante di merito. Dicono che c’è qualcosa sul merito che va rivisto profondamente, perché tendenzialmente veniva usato contro i poveri. E quindi hanno immaginato storie più sofisticate, più complesse. Storicamente c'è un paradosso interessante: che i cattolici hanno difeso sempre il merito, come reazione ai protestanti che si rifacevano ai concetti di sola gratia e alle opere. E quindi i cattolici hanno reagito dicendo “No, il merito è importante”. Abbiamo costruito tutta la teologia neoscolastica attorno al merito. Ma dov'è che nasce la meritocrazia? Nasce nel mondo protestante, non in quello cattolico. Quindi i protestanti espellono la meritocrazia dal cielo per rimetterla sulla terra. Mentre noi cattolici, che l'abbiamo tenuta sulla terra, non abbiamo spinto la meritocrazia fino a farne un sistema ideologico.
Quali sono le insidie della meritocrazia, dal mio punto di vista? Innanzitutto dovremmo porci la domanda “quale merito”? Perché siamo diversamente meritevoli, perché i meriti sono molti. Qual è il fenomeno che oggi stiamo registrando, dal punto di vista sociale? Che il merito del business, cioè quel tipo di merito delle grandi imprese, un merito quantificabile, oggettivo, misurabile, sta diventando il merito di tutti. Ciò che è nato all'interno della grande impresa – la quale aveva un bisogno di quantificare la meritorietà, anche in termini di remunerazione e di carriera, siccome è un merito facile, perché si può misurare – da lì è emigrato ed è arrivato praticamente ovunque. Anche nella scuola.
Attenzione: il merito che oggi torna a scuola non è quello dei pedagogisti, è quello delle imprese. Non è che la meritocrazia oggi sta tornando per Pestalozzi o per la Montessori, o per i grandi pedagogisti. Sta tornando per la forte influenza teorica che ha il mondo del business oggi nel mondo tout court. È il merito facile che viene premiato, quello che possiamo mettere in un ranking, perché chiaramente ogni meritocrazia è legata a un ordine, a chi è più o meno meritevole. Siccome le qualità umane facciamo fatica a metterle in un ordine, noi tendiamo a premiare i meriti quantitativi, osservabili e misurabili, e a discriminare altri meriti, qualitativi e invisibili.
Facciamo un esempio: chi premia oggi nelle istituzioni la mitezza, l'umiltà, la mansuetudine, la misericordia? Non si misurano facilmente. Quindi, primo punto, noi tendiamo a premiare troppo cose semplici e a discriminare le virtù che sono decisive per vivere insieme, perché non riusciamo a misurarle, quindi non le premiamo e le scoraggiamo. Per non parlare di alcune dimensioni più legate al mondo femminile, ad esempio, che vengono sistematicamente dimenticate in nome di un'idea di merito che è stata prodotta in un certo modo.
Secondo punto: talento e merito. Si parlava prima di talento, anzi ringrazio molto la giornalista de “Il Mattino” (Paola Guarnieri, ndr) che ascolto sempre parlare di scuola. Grazie, veramente grazie per averne parlato. Il grande problema che è dietro la meritocrazia è l'errore tecnico di confondere il talento con il merito. I più sofisticati dicono: “il merito è una combinazione convessa di talento e impegno”. Però si dimenticano, come è stato detto giustamente in modo geniale dalla dottoressa (Paola) Serafin (Segretara Nazionale CISL Scuola, ndr), che anche l'impegnarsi è dono. Cioè, la mia capacità di impegnarmi dipende da mille fattori: da dove sono nato, da cosa trovo a casa quando torno da scuola, se devo preoccuparmi di campare andando in giro a cercare qualcosa o se ho una scrivania, una abat-jour, una famiglia che mi fa studiare. Cioè, la capacità di impegnarmi non è merito, è al 90% dono.
Io ho rivisto qualche anno fa, per i 50 anni dalla quinta elementare, nel mio paese, i miei compagni di scuola. Dopo dieci minuti di riconoscimento dovuti alla caduta dei capelli e alla pancia, viene da me Giulio e mi dice “Luigino, ti ricordi? Io facevo al mattino tutti i giorni dieci chilometri a piedi per venire a scuola, abitavo in una in una collina, a quel tempo non c'era il pullman”. Il papà di Giulio faceva il contadino, Giulio fa il contadino anche lui, oggi. Io sono nato di fronte alla scuola, da una famiglia che mi ha voluto bene, povera ma bella. Ho studiato gratis venticinque anni, fino al dottorato incluso, ho fatto incontri decisivi nella mia vita, che mi hanno fatto studiare, che mi hanno dato fiducia, mi hanno dato stima. Oggi faccio il professore universitario. Quanto c’è di merito e quando c'è di impegno? Quanto c'è di dono? Dono: 90%, merito: 10%. Questa è la vita vera.
Poi c’è quella raccontata: “tutto dipende dal mio merito”. Ma questa è un'altra storia: noi sappiamo che se fossi nato nella periferia di Napoli o fossi nato in Camerun, oggi avrei fatto un'altra vita, pur avendo gli stessi cromosomi e gli stessi talenti. Cioè, ciò che uno diventa è tante cose insieme. Perché dico questo? Perché se noi interpretiamo il talento come merito, che cosa diventa la meritocrazia? Diventa la legittimazione etica della diseguaglianza. Perché quella diseguaglianza che abbiamo combattuto nel Novecento come un male, cambiandole nome è diventata un bene. Perché semplicemente se io e Giulio siamo nati con una differenza di cromosomi pari a 1 a 2, quindi un tasso di diseguaglianza naturale di 2, se le nostre diversità vengono interpretate come merito e premiate diversamente dalla società, andremo in pensione con un tasso di disuguaglianza pari a 10. Questo è il rischio profondo della meritocrazia: che aumenti le diseguaglianze.
A fronte di questo tema c'è l'altro grande argomento che è collegato, da Giobbe in poi, al merito, che è il tema della colpa. Cioè: dietro al merito c'è l'ennesima operazione, che basta leggere il Libro di Giobbe, non solo dall’inizio alla fine, ma anche quello che c'è in mezzo, per saperlo: ci sono tutti i dibattiti con gli amici sulla colpa e sul merito. “Tu ti sei meritato la tua sventura perché hai peccato”, gli dicevano, e Giobbe dice in tutto il suo libro “Io non ho fatto niente, sono innocente, sono soltanto sventurato, non sono colpevole”.
Da lì in poi, qual è il tema? Il merito ha bisogno del demerito, perché è un concetto gerarchico, quindi di fatto la meritocrazia viene usata più per scartare i demeritevoli, interpretati come colpevoli, che non per premiare i meritevoli. Se noi guardiamo la storia umana, attorno al merito si è sviluppato soprattutto il demerito, non il merito. Questo è un fatto empirico, oggi basta guardare il dibattito attuale e come viene usata la meritocrazia; come viene usata di fatto, non nelle narrative.
E, infine, pensiamo alla scuola. È ovvio che la scuola nasce attorno al merito. Attenzione: io amavo tantissimo competere coi miei compagni sui voti, come tanti di noi. Ma il merito arriva ad un secondo livello, è un merito di secondo piano. Prima di tutto la scuola, ad un livello più fondativo, è un luogo che riduce le diseguaglianze dei punti di partenza e manda a scuola e accoglie i ragazzi le ragazze e i bambini a prescindere dai meriti, perché sa che il merito - o il demerito - non è merito nostro, ma della vita. E quindi fa in modo che, al di là dei talenti, delle diseguaglianze sociali, dei punti di partenza, se un bambino entra con un tasso di diseguaglianza pari a 5, quando ha 6 anni deve averlo ridotto.
Ecco perché io ho proposto, anche nel vostro convegno Cisl, di rivedere l'articolo 34 della Costituzione. Perché è un articolo superato dall'Italia. Perché l'Italia non ha soltanto consentito ai più capaci e meritevoli di raggiungere i livelli più alti della società, lo ha consentito anche ai meno capaci e meno meritevoli, perché l'essere meritevole e capace non è un problema di merito, ma un problema di vita. Quindi, che cosa ci facciamo dei meno capaci, che magari vengono a scuola “così”, perché hanno famiglie sbagliate? Li mettiamo da parte?
Pensate agli insegnanti di sostegno, a cosa hanno fatto nella scuola e a cosa fanno. Rendono possibile ai meno capaci di raggiungere gli altri. Quindi c'è un primo livello dove la scuola include tutti, a prescindere dal merito. Poi, una volta che quel piano è assicurato, e non è per niente ovvio, si può anche dare il voto, ma è un giochino interno, dentro un meta-gioco molto, molto più inclusivo, che non ha nulla a che fare con il merito e che se ce l'ha, funziona al contrario. Cioè, fa in modo che le persone meno meritevoli possano raggiungere gli obiettivi degli altri.
Questo è il tema: esiste un secondo livello del merito, se il primo è assicurato. È un fattore che non va mai assolutamente dimenticato. Perché mentre nel business il merito fa danni – ma sono ancora gestibili – se entra anche a livello dei bambini, dei ragazzi, può fare danni molto gravi. Perché può semplicemente aumentare quelle diseguaglianze naturali che la civiltà ha cercato da almeno 2.500 anni di ridurre.
Quando ho scritto il mio libro sulla mediocrazia l’ho chiamato “La civiltà della cicogna”, perché nel mondo romano c'era un'idea-mito che la cicogna si occupasse dei genitori anziani. Tanto che nelle statue della dea della riconoscenza le si metteva accanto una cicogna. Perché l’ho chiamato così? Perché una civiltà meritocratica è una civiltà ingrata, che non riconosce quanto dono c'è dentro il merito. E quindi non riconosce agli altri, al mondo, alla scuola, ai genitori, allo Stato, quanto c'è nel proprio merito, nei propri successi di dono, di Provvidenza. Penso quindi che rimettere in discussione, fare un po' di merito-critica all'interno di un mondo che vede troppo i meriti facili e vede troppo poco i meriti difficili, sia un modo anche per aumentare la riconoscenza, una virtù fondamentale e dimenticata che è la base e il cemento della civiltà.
Convegno "Sul merito". Roma, 2 marzo 2023
Luigino Bruni
Professore ordinario
di Economia Politica alla LUMSA
"Professore Bruni, il titolo di un suo articolo su Avvenire era 'Meritocratici e meritocritici'. Ci vuole illustrare questa contrapposizione?"