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Anna Armone
La regolazione 
dell'etica professionale dei docenti

   

Luigino Bruni
Leadership e meritocrazia
nella scuola



 

APPROFONDIAMO


Leadership
e meritocrazia
nella scuola

Se nella scuola si suddividono

gli studenti in leader e follower,

si inizia a minare alle fondamenta

il primo pilastro dell’educazione

dei bambini, delle bambine

e dei giovani, ovvero la riduzione nell’aula scolastica

delle diseguaglianze naturali e sociali per poter creare quella comune cittadinanza, essenziale ad ogni patto sociale e per ogni democrazia. 

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Professore ordinario

presso l’Università LUMSA di Roma

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Leadership è ormai diventata una parola sacra della nuova religione del capitalismo del XXI secolo. La si invoca ovunque, come cura per ogni malattia organizzativa e comunitaria. Non c’è Dipartimento universitario, anche di filosofia, che ormai non abbia almeno un corso di leadership. Anche gli ambienti ecclesiali ne sono abbagliati e ammaliati: si incontra ogni giorno un nuovo corso sulla leadership di Gesù (!), di San Benedetto (dimenticando che il “leader” nel monachesimo è la regola, non l’abbate) e persino di San Francesco (che era l’anti-leader per eccellenza). Corsi ai quali invitare i parroci e i responsabili di comunità che vogliono ambire a diventare nuovi e diversi “leader”. Tutto ciò nonostante il fondatore del Cristianesimo abbia detto: “Non vi fate chiamare guide [leader], perché una sola è la vostra guida” (Mt 23,10) e tutto l’umanesimo cristiano sia stato costruito attorno al concetto di sequela, che è l’esatto opposto della leadership. E, data la crescente domanda di leader, si moltiplica l’offerta e con questa gli aggettivi (leadership inclusiva, gentile, comunitaria, collegiale ecc.); aggettivi che crescono senza però mettere mai in discussione il sostantivo: la leadership.  


Dovremmo cercare di comprendere le ragioni dell’affermarsi di questo nuovo dogma. Come sempre accade nei processi complessi, le ragioni sono molte, e quelle più importanti sono quasi sempre implicite e nascoste sotto discorsi che sembrano dire l’opposto del vero messaggio camuffato. Alla radice delle molte ragioni c’è una nuova grande fragilità relazionale ed emotiva di lavoratori e dirigenti, che cresce ogni giorno di più in un mondo civile ed economico che nel giro di una generazione ha disimparato come si lavora assieme, e non è riuscito ad inventare un altro modo. Questa fragilità dei nuovi lavoratori, non equipaggiati delle antiche virtù cooperative del lavoro, ha generato una miriade di consulenti, e da questi è giunta, nel cavallo di troia delle nuove competenze, la leadership. 


E così siamo dentro un vero e proprio paradosso: da una parte, donne e uomini, critichiamo con sempre maggiore energia il patriarcato e tutto l’umanesimo di quel mondo gerarchico, sacrale e asimmetrico, e dall’altra edifichiamo una cultura della leadership che, sotto molti aspetti, è più patriarcale del patriarcato. Ed è poi ancora più impressionante e stupefacente che il nuovo movimento femminista, molto attento a molte cose giuste e buone, non si sia ancora accorto di quanto maschilismo sia incorporato nella idea di leadership che sta occupando il mondo. 


Ma c’è qualcosa di veramente importante e preoccupante, se cerchiamo di proiettarci nel futuro prossimo. È un fenomeno recente che però dice la direzione che questo nuovo umanesimo del business sta prendendo. Mi riferisco alla presenza della cultura della leadership nel mondo della scuola


Qualche tempo fa, due colleghe mi hanno raccontato il recente colloquio con gli insegnati dei loro figli e figlie. Alcuni dei docenti di quelle due scuole, diverse in ordine e grado, hanno ripetuto, con parole molto simili, uno stesso concetto, riassumibile più o meno così: “Sua figlia, suo figlio, ha tutte le potenzialità per poter diventare una leader della classe, ma non siamo sicuri che ce la faccia, perché ce ne sono altre e altri bravi con cui sta competendo per la leadership: dovete aiutarla/o a casa a rafforzare le sue doti, ancora implicite, di leader”. Questi ragionamenti li conoscevo, ma pensavo si limitassero all’ambiente universitario che frequento e conosco ormai bene. E invece queste testimonianze, insieme ad alcune letture, dicono della forza della mentalità del business e della consulenza che dalle grandi aziende sta migrando ovunque, e quindi entrando pesantemente nel mondo della scuola, e non escludo che a breve si estenda anche alle scuole primarie. 


Il cambiamento, infelice, del nome del ministero dell’istruzione (e “del merito”) aveva già segnalato un cambiamento significativo di cultura educativa nel Paese, perché la meritocrazia e la leadership sono due facce della stessa medaglia: il leader è diverso dal vecchio “dirigente” o “capoufficio”, perché il leader deve meritarsi la sequela dei suoi “dipendenti” che devono diventare followers – attenti al linguaggio dei social su questo – che quindi seguono i loro capi non per i vecchi strumenti della gerarchia, ma solo per intima convinzione e seduzione. La leadership è per sua natura manipolatrice e illiberale, ma nessuno ce lo dice – ne stiamo già vedendo le derive politiche, nelle seduzioni di nuovi leader che vogliono essere scelti e votati dal popolo follower, senza nessun’altra mediazione. 


Ed è proprio qui che dobbiamo stare veramente attenti. Se la scuola inizia prima a distinguere e poi dividere gli studenti in leader e follower, si inizia a minare alle fondamenta il primo pilastro dell’educazione dei bambini, delle bambine e dei giovani, vale a dire la riduzione nell’aula scolastica delle diseguaglianze naturali e sociali per poter creare quella comune cittadinanza essenziale ad ogni patto sociale e per ogni democrazia. 


A scuola le ragazze e i ragazzi devono imparare ad essere compagne e compagni di tutti, di chi ha ricevuto più talenti e di chi ne ha meno, perché la fraternità civile inizia nelle aule scolastiche, e solo dopo in quelle del Parlamento – un paese che inizia a ridurre l’uguaglianza nella scuola rende vana e vuota anche la democrazia nei parlamenti. Esistono già meccanismi per differenziare “i meriti” scolastici che si chiamano giudizi e voti, e tutti in classe sanno chi sono i compagni più bravi e quelli che lo sono meno o che sono più bravi in altre discipline: la molteplicità delle discipline, e la pari dignità tra di loro, è anche uno strumento essenziale per valorizzare i meriti di tutti nella classe. Se invece a queste diseguaglianze inevitabili di talenti e di opportunità iniziamo ad aggiungere anche le doti di leadership che avrebbero solo alcuni (i leader sono, per definizione, sempre meno dei follower), le diseguaglianze cresceranno sempre di più, fino a distruggere la convivenza civile, o a farla diventare qualcosa di finto e/o di irrilevante. 


L’aspetto più deleterio di questa ideologia-religione del business è il suo presentarsi come faccenda innocua e persino come uno sviluppo e una crescita di civiltà; e quindi viene accettata troppo facilmente e velocemente da insegnanti e ancor più dalle famiglie.  


Il mondo della scuola deve attrezzarsi di più, molto di più, per riconoscere i nuovi pifferai magici che girano in cerca di nuovi seguaci: altrimenti, un giorno, potremmo svegliarci e scoprire che i nostri ragazzi hanno lasciato il villaggio, incantati da quel suono seducente e gentile. 

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