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Dalla parte di chi c'è... la scuola come non
l'avete mai vista

Il saggio di Gianna Fregonara

e Orsola Riva fa trasparire

che il futuro, nella scuola,

ha gli occhi di milioni di studenti 

che quotidianamente la contestano,

ma poi ci si affezionano. E allora,

urge non sparare sulla scuola

ma, semmai, imparare

a prendersene cura. 

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 Dirigente scolastica 

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“Non sparate sulla scuola” è un libro che si legge in poche ore, che fa riflettere sulle enormi contraddizioni del nostro sistema scolastico e che ci porta a interrogarci se oggi, nel 2023, abbiamo ancora necessità della scuola che, per gran parte del suo impianto, è ancora legata alla scuola gentiliana, ma che, con grande fatica, cerca di emanciparsi e affermarsi in un presente che sfuma, inesorabilmente, nel suo futuro prossimo. 

Il libro commuove e, a tratti, fa sorridere. Per noi addetti ai lavori, rivederci nel saggio di Gianna Fregonara e Orsola Riva è un’occasione notevole di riflessione. Il saggio, infatti, ci racconta la scuola attraverso una carrellata di numeri e dati impressionanti. Noti ai i più attraverso “il sentito dire”, ma analizzati con lucidità e precisione. 

Siamo tutti consapevoli che la scuola italiana sia una delle strutture più salde del Paese. Un lugo immenso e diffuso, talmente variegato sul territorio nazionale da diventare fluido e mutevole. Talmente immobile, per certi versi, da essere un’entità astratta benché capillarmente presente in ogni paesino o frazione, riconoscibile e inossidabile. Ecco allora che diventa inevitabile chiedersi se, ancora oggi, abbia senso andarci. 

Oggi, in una società profondamente tecnologica, fatta di intelligenza artificiale, di informazioni raccolte in tempo reale e senza troppo sforzo dai nostri cellulari, la figura del maestro o del professore che lotta quotidianamente con le fatiche di una scuola che, per restare in piedi, deve avere un certo numero di studenti o, per essere socialmente accettabile, conseguire un certo risultato nelle rilevazioni INVALSI, ha ancora senso? 

Leggendo il testo, a tratti, siamo portati a rispondere: no! Ma poi, nelle pagine che si animano di figure concrete, di presidi o studenti che hanno un nome e un cognome e una precisa posizione geografica, di rivendicazioni studentesche, come quelle degli allievi del Berchet di Milano, che hanno animato il dibattito per mesi dopo la pandemia, la risposta è assolutamente sì! 

Nel viaggio lungo la scuola del nostro Paese, così variegata e così complessa, parlando di voti e valutazioni, di edilizia scolastica e di dispersione, di risultati e competenze, di inglese ed educazione degli adulti, di divari territoriali e digitalizzazione, un fil rouge segna tutto il percorso. La scuola è e rimane il baluardo della socializzazione. 

Intesa come momento di personalizzazione ed individualizzazione del proprio percorso umano. Se, da una parte, è vero che siamo inseriti in un sistema rigido, per certi versi burocratizzato e centralizzato, in cui è difficile cambiare qualcosa – il dibattito sul voto numerico e il suo fallimento parla da sé –, è pur vero che i professori e i maestri, per quanto criticati e stereotipati dal senso comune, sono il motore del cambiamento diffuso che parte dal basso. 

Sono quelli che sanno ascoltare i giovani, i bambini, gli adolescenti. Che sanno attivare le leve e toccare le corde dell’animo dei nostri ragazzi. Sono quelli che – ahinoi – trascorrono la maggior parte del tempo con le nuove generazioni. E proprio da loro, dai tanti maestri e professori che fanno anni di precariato nella scuola, che arrivano all’agognato ruolo in ritardo, che si lamentano spesso di tutto il sistema, paradossalmente da loro nasce la riforma dal basso che è necessaria a smuovere le coscienze. Sono loro che si fanno interpreti del disagio giovanile e rincorrono tutto l’anno progetti e attività alternative per riempire il tempo vuoto dei nostri ragazzi che non hanno più altre alternative se non la scuola. 

Certo, se ci soffermiamo a leggere bene tutti i dati citati nel libro, da quelli di “Save the Children” a quelli di OCSE, quasi ci scoraggiamo. Ma poi, oltre i dati, ci sono le storie. Storie di chi la scuola l’ha subita, di chi la scuola l’ha odiata, di chi l’ha incontrata per caso; ma poi, per tutti noi ci sono storie di scuola che hanno salvato dal baratro del silenzio e dell’oblio. 

Se c’è una forza, nella scuola di oggi, è proprio questa: ciascuno studente, in qualsiasi contesto, ha l’occasione di riflettere su se stesso. Su chi è o cosa vuole essere. Non tanto su ciò che davvero può imparare. L’effetto scuola, in Italia, nel Paese delle difficoltà e del disagio giovanile, si estrinseca nella capacità di resilienza e di adattività dei docenti a fare la differenza. 

C’è futuro per la scuola? Nelle pagine del libro, che scorre in fretta tra le dita sia per gli addetti ai lavori che per i tantissimi italiani della porta accanto, il messaggio è rassicurante. La scuola serve. Non solo a chi ci lavora, ma soprattutto a chi la frequenta. Perché a scuola si cresce, si studia, si cade e ci si rialza. Si impara a diventare grandi, ad assumersi delle responsabilità, a fare i conti con la vita. E il futuro, nella scuola, ha gli occhi dei milioni di studenti che quotidianamente la contestano, ma contemporaneamente ci si affezionano. 

E allora, non sparate sulla scuola. Semmai imparate a prendervene cura. Nelle piccole cose di ogni giorno. Non facendo di tutta l’erba un fascio, cominciando a rispettarne le regole e gli ordinamenti. E pretendendo rispetto per chi ci lavora e ci crede. Perché più o meno un milione di persone, ogni giorno entra in classe e trascorre la sua giornata con le nuove generazioni. E lo fa con costanza e dedizione. Ma ha bisogno che siamo tutti dalla stessa parte. Quale parte? Quella di chi c’è. Di chi ogni giorno prova a cambiare le cose e dalla parte dei giovani che ogni giorno ci chiedono di guardarli, vederli, accompagnarli. Credendo in loro. E dando il buon esempio. 

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