ben-essere
La scuola
dove ci piace andare
Una scuola dove si sta bene,
dove si va volentieri e si lavora
con piacere, dove l’alunno
è protagonista e il docente è regista-facilitatore, dove si condividono
le conoscenze. È la scuola che guarda agli studenti per quello che potranno essere, aiutandoli a diventarlo.
Pedagogista.
Direttore del Centro Psicopedagogico
per l’educazione e la gestione dei conflitti
Valeria, seconda media: «Quando commetto un errore sto tanto male dentro, ma fuori non lo faccio vedere, perché sono molto riservata e, visto che già sono in imbarazzo davanti ai prof, se mi metto anche a piangere o a stare zitta va a finire che mi trovo puntati addosso mille sguardi che non sarebbero d’aiuto».
Cecilia, prima media: «Non capisco più nulla, mi sento vulnerabile. Le persone vicino a me stanno in un silenzio agghiacciante, ma con gli occhi dicono molto». Saber, prima media: «A casa mi mettono in punizione, a scuola mi sgridano e quando succede mi sento un po’ male».
Da come raccontano questi ragazzi e ragazze, a volte la scuola può diventare un incubo. Accade quando l’alunno la percepisce come una sorta di tribunale perché i suoi errori non sono vissuti come necessari passaggi nel graduale processo di apprendimento, ma come colpe più o meno da espiare. Parlo di un modello di scuola in cui nessuno a priori si riconosce, ma che risente di una mentalità ancora dominante. Un tipo di scuola che giustifica le ossessioni correttive, convinta che solo così uno studente possa essere sostenuto, spinto a capire e a fare la cosa giusta e che a volte si incunea anche fra i genitori.
Una scuola che sollecita una mentalità del genere, o comunque ne vive, può diventare pericolosa sul piano psicologico, specialmente per i ragazzini e le ragazzine in età preadolescenziale. La naturale turbolenza che sperimentano, inserita in quel contesto, rischia di scatenare situazioni anche di autolesionismo.
La scuola può invece essere un luogo dove gli alunni vanno volentieri, dove sanno di poter esprimere sé stessi e sviluppare le proprie risorse in un contesto sociale, insieme ai compagni. Per liberarsi dei «vecchi metodi» sono necessari due passi indietro e due passi avanti, tanto per cominciare.
Due passi indietro:
1. Smettere i panni del tribunale e uscire dalla rigidità cristallizzante del voto numerico che appiccica una sorta di etichetta sulle prestazioni dell’alunno. Specie alle scuole superiori, permangono retaggi del passato davvero difficili da scalzare. Su tutti, l’utilizzo di voti numerici umilianti che non possono pretendere di alzare la motivazione scolastica, specialmente nei ragazzi più fragili. L’uso del «2-», «2+», «dal 2 e mezzo al 3--» è agghiacciante. La frequenza diventa una sorta di gara: «Tu che voto hai preso? Io ho preso… E tu quando lo prenderai?». Con tanti genitori che gongolano per i successi del figlio e, viceversa, altri che si lagnano degli insuccessi. Una sorta di corrida, dove ci si esercita a superare i compagni piuttosto che a migliorare sé stessi.
2. Uscire dal mito dell’ascolto come premessa quasi esclusiva dell’apprendimento dove qualcuno spiega, racconta, parla e parla, ed esige che alla sua esposizione corrispondano una comprensione e un’assimilazione. Far coincidere l’insegnamento trasmissivo con l’acquisizione da parte degli alunni è una delle più sconcertanti pretese della scuola tradizionale, che conserva gelosamente le sue pratiche inerziali.
I ragazzi e le ragazze hanno bisogno di concretezza, di «azione», non di passività, di qualcuno che non mortifichi i loro errori e che li aiuti viceversa a valorizzare le proprie risorse.
Ecco che vengono in aiuto i due passi avanti:
1. La scuola è il luogo dove imparare assieme. La classe è un gruppo di apprendimento, non una somma di personalità diverse che vanno gestite e coordinate in maniera individuale. Imparare a conoscere e gestire il gruppo-classe è una competenza imprescindibile per l’insegnante. Si tratta di sviluppare un clima che predisponga al lavoro scolastico, un clima osmotico, di collaborazione. Dare agli alunni il segnale che si tratta di un lavoro comune, favorendo la sensazione di appartenenza al gruppo-classe all’interno del quale ciascuno compirà il lungo viaggio dell’anno scolastico. Nella scuola dell’apprendimento, il docente non ha più un ruolo centrale: il focus è sugli alunni che lavorano assieme, sul gruppo-classe, sul loro protagonismo stimolato attraverso processi di condivisione, di scambio, di imitazione.
2. Il docente è un regista e come tale «fa lavorare» gli alunni. Il mito del bravo insegnante che deve stare al centro, a sgolarsi, è duro a morire. Non c’è bisogno di parlare troppo, gli alunni vanno fatti lavorare. Il suo compito consiste nel facilitare l’apprendimento più che nel distribuire informazioni e contenuti. Un insegnante-regista non abbandona la sua classe: la sua presenza non sostituisce, ma sostiene mettendo a disposizione le conoscenze disciplinari, senza però fornire le proprie risposte ai problemi che emergono nel lavoro, sollecitando piuttosto lo sviluppo didattico del processo. Deve pertanto acquisire un metodo, che io definisco «maieutico», che gli permetta di mettere al centro della scena i propri alunni attraverso esperienze concrete, laboratori, creando «situazioni-stimolo» che non sono definite a priori e controllate nelle varie fasi, ma restano aperte alle possibilità che nascono dagli studenti o nell’ambito della classe.
Manuel, prima media, scrive: «Mi diverto moltissimo, mi diverto in giardino prima dell’inizio della scuola e mi diverto a ricreazione. I miei compagni sono splendidi e mi diverto soprattutto quando parliamo delle nostre avventure e quando ci divertiamo a motoria».
Una scuola dove si sta bene, dove si va volentieri e si lavora con piacere: penso sia il desiderio di tutti. Chiudo con le parole della pedagogista Marta Versiglia che restituiscono ancora una volta la magia dell’educare, del fare scuola: «Vogliamo un alunno pappagallo? Un alunno che risponde ai quiz con un sì o con un no? A cui abbiamo inculcato saperi e verità?
Mi piace pensare alla scuola come a quel quadro di Magritte che rappresenta un pittore davanti alla tela intento a dipingere un uovo. Eppure, ciò che ritrae è un uccello in volo1. Dipinge il futuro dell’uovo, il sogno che l’uovo gli fa sognare. Noi educatori non dovremmo essere un po’ così? Avere la capacità di guardare i bambini e i ragazzi vedendo quello che potranno essere e aiutandoli a diventarlo».
(1) Renè Magritte, La chiaroveggenza, 1936.