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autonomia 

Ricomporre    il puzzle del sistema scolastico,
è possibile? 

Dalla riforma Bassanini alla legge costituzionale del 2001, numerosi sono stati i tentativi di normare i rapporti tra istituzioni centrali, quelle locali e la scuola in termini di autonomia. I modelli esistenti potrebbero essere bilanciati dal rinforzo reale del sistema delle autonomie, attraverso reti istituzionali di scuole dotate di personalità giuridica di diritto pubblico. 

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 Già Direttore amministrativo presso la Scuola Nazionale dell'Amministrazione di Bologna 

È cosa nota che la politica affronta la tematica del sistema scolastico, intervenendo puntualmente su singoli aspetti problematici. Questo atteggiamento non è imputabile ad un governo di destra o di sinistra, ma fa parte della profonda e radicata cultura politico-istituzionale dei soggetti che governano il nostro paese. 

Nel corso dei decenni c'è stato qualche tentativo di riforma di snodi sistemici della scuola; mi riferisco in particolare alla madre di tutte le riforme, la riforma degli Organi Collegiali. Questa esigenza è nata nel momento dell’attribuzione dell’autonomia scolastica e del conseguente riconoscimento della qualifica dirigenziale ai capi d’istituto. Il legislatore dell’art. 25 bis del D.lgs 59 del 1998, confluito nell’art. 25 del D.lgs 165/2001, è stato prudente nel definire le competenze dirigenziali proprio in considerazione dell’assetto collegiale di cui al D.lgs 297/1994 che, ancora oggi, riconosce competenze “concorrenti” degli organi collegiali d’istituto. Peraltro, anche la Legge 107/2015 ha, nonostante tutto, richiamato, nel definire alcune competenze (azzardate) dirigenziali, il rispetto delle competenze degli organi collegiali. 

La revisione degli organi collegiali è stata già immaginata sin dalla legge Bassanini come uno degli interventi più importanti del sistema scolastico, ma da allora tutti i tentativi di riforma sono falliti, come sono falliti i tentativi di identificare in modo netto e chiaro uno stato giuridico del docente finalmente chiarificatore della relazione datoriale tra le due figure, il dirigente e il docente. Il fallimento di tutti i tentativi di dare una configurazione organizzativa ai rapporti tra gli organi collegiali e il dirigente, e tra il dirigente e il singolo docente, è dovuto certamente alla “pesantezza” del problema, che non può essere affrontato con provvedimenti puntuali che soddisfano, di volta in volta, esigenze particolari del personale. 

Questi due buchi neri hanno inciso e incidono tutt'oggi sulla trasparenza decisionale della scuola e sulla sua efficacia. A questi inceppamenti interni all'istituzione scolastica si accompagna il sistema della governance esterna, anch'esso incompleto e contraddittorio. Occorre ricordare come dalla riforma Bassanini si giunse alla legge costituzionale n. 3 del 2001, che riconobbe il principio della sussidiarietà verticale e orizzontale e accompagnò questo disegno con la previsione del federalismo fiscale. Ma il federalismo fiscale si fermò alla legge delega 42/2008, che non produsse nessuna riforma. A questo esito contribuì la crisi economica nella quale piombò il paese al seguito dell’intero Occidente. L’attuazione della riforma costituzionale in materia di istruzione rimase al palo. 

Il disegno emergente dalla legge costituzionale n. 3 del 2001 rappresenta un ordinamento policentrico, in cui la governance è costituita dal confluire dei vari ordinamenti nell’obiettivo della buona gestione della cosa pubblica. In questo disegno organizzativo delle competenze, lo Stato è chiamato a provvedere solo sulle materie espressamente elencate nel secondo comma dell’art. 117, e solo attraverso la definizione dei principi fondamentali, su quelle attribuite alle Regioni. Ciò significa che lo Stato avrebbe dovuto subire un forte dimensionamento, tanto più che nelle stesse materie di competenza esclusiva statale le relative funzioni amministrative devono essere di norma esercitate dai Comuni, e solo eccezionalmente e in via sussidiaria dallo Stato e dagli altri enti locali necessari. Ciò avrebbe dovuto comportare un trasferimento di funzioni e delle relative risorse finanziarie ai soggetti periferici competenti in concreto a provvedere. 

Eppure, le buone intenzioni c’erano. L’accordo del 19 aprile 2001, stipulato tra il Ministero della Pubblica Istruzione, le regioni e le province autonome, i comuni, le province e le comunità montane sul documento per l’esercizio in sede locale di compiti e delle funzioni in materia di erogazioni del servizio di istruzione e formazione, prevedeva che “… 7. L'ottimale perseguimento degli obiettivi da parte di tutti gli organi della pubblica amministrazione che, nel loro insieme, costituiscono un sistema allargato di erogazione del servizio formativo, può essere garantito da un'efficace interazione tra i diversi attori basata sulla collaborazione e sull'integrazione dei rispettivi ambiti di competenza; 

8. È necessario, pertanto, stabilire un percorso metodologico che faciliti la declinazione degli obiettivi nazionali, coniugandoli con quelli individuati a livello regionale e locale per tutte quelle aree di attività dei vari soggetti che presentano significativi punti di contatto…”. 

Qualche anno dopo, la Corte Costituzionale, a seguito di un contenzioso sulla riforma del Titolo V della Costituzione, con la sentenza n. 13 del 2004, e con le successive sentenze n. 34/2005, n. 37/2005, n. 279/2005, statuì che l'autonomia delle scuole "non può risolversi nella incondizionata libertà di autodeterminazione, ma esige soltanto che a tali istituzioni siano lasciati adeguati spazi di autonomia che le leggi statali e quelle regionali, nell'esercizio della potestà legislativa concorrente, non possono pregiudicare". 

La Corte ha, dunque, escluso che l'autonomia delle scuole sia rapportabile alle "libertà" costituzionali e, pertanto, deve rapportarsi con la regolazione statuale e regionale prevista dalla Costituzione. 

Il blocco della realizzazione del disegno costituzionale in materia di istruzione ha fossilizzato il disegno statuale della permanenza sul territorio degli Uffici scolastici regionali che hanno via via rinforzato le loro attribuzioni nei confronti delle istituzioni scolastiche, processo che ha raggiunto il suo apice con la legge 107. 

Da dove partire? Dal posto della scuola nel sistema amministrativo pubblico. Se è vero che l’autonomia scolastica deve afferire al territorio o al centro dell’amministrazione, allora bisogna decidere il disegno e realizzarlo. 

Fuori da ogni considerazione ideologica, il disegno dell’afferenza al territorio delle autonomie scolastiche dovrebbe ripartire da quanto già definito nel Master Plan delle azioni per l’attuazione del Titolo V della Costituzione in materia di istruzione, che si concluse nel 2006. Il Master Plan, che individuava a livello “macro” gli ambiti e gli oggetti del trasferimento in relazione alle funzioni e alle competenze in capo alle Regioni, avrebbe potuto segnare la strada da seguire per favorire la collaborazione interistituzionale che accelerasse i tempi di definizione, per il settore scuola, di una proposta condivisa tra il Ministero della Pubblica Istruzione, le Regioni e gli altri livelli istituzionali, a diverso titolo coinvolti nel processo attuativo. Ma questo disegno è oggi, nei fatti, dipendente dagli esiti del disegno dell’autonomia differenziata che supera a piè pari l’organizzazione, mai realizzata del sistema previsto dall’art. 117 della Costituzione. 

L’altro disegno, che dipende in gran parte dagli esiti del primo, dovrebbe fondarsi sul riconoscimento dell’assetto statuale dell’istruzione, con la filiera decisionale finalmente chiara, in particolare in relazione alle competenze e ai poteri dell’USR. 

Il regolamento di organizzazione ministeriale, il D.P.C.M. n. 166/2020, disegna già un modello del genere. Ad esempio, in relazione ai rapporti con il territorio “promuove la ricognizione delle esigenze formative e lo sviluppo della relativa offerta sul territorio in collaborazione con la regione e gli enti locali; cura i rapporti con l’amministrazione regionale e con gli enti locali, per quanto di competenza statale, per l'offerta formativa integrata, l'educazione degli adulti, nonché l’istruzione e la formazione tecnica superiore e i rapporti scuola-lavoro”. Relativamente alla relazione con le autonomie scolastiche “svolge attività di verifica e di vigilanza al fine di rilevare l'efficienza dell’attività delle istituzioni scolastiche; valuta il grado di realizzazione del piano per l’offerta formativa; assegna alle istituzioni scolastiche ed educative le risorse di personale ed esercita tutte le competenze, ivi comprese le relazioni sindacali, non attribuite alle istituzioni scolastiche o non riservate all'Amministrazione centrale; assicura la diffusione delle informazioni…”. 

Il problema della compressione dell’autonomia scolastica è potenzialmente prevedibile in ognuno dei due disegni, considerato il ruolo della Regione o dello Stato. I confini dell’autonomia scolastica sono indefiniti e si definiscono solo a seguito della regolazione territoriale o centrale. 

Entrambi i modelli potrebbero essere bilanciati dal rinforzo reale del sistema delle autonomie, attraverso la costituzione di reti istituzionali di scuole dotate di personalità giuridica di diritto pubblico (così come aveva previsto la proposta di legge n. 3178 del 2010 a firma De Pasquale). 

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