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"C'è ancora domani".
Può esserci
ancora futuro?

Con “C’è ancora domani”

Paola Cortellesi ci parla del rapporto tra donne e uomini, andando

alle radici moderne della condizione delle donne in Italia, consapevole

che il futuro si costruisce

dalla conoscenza del passato.

La domanda è: “Quale futuro?”,

la risposta è ancora da costruire. 

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 Docente di scuola secondaria di 2° grado. Segretaria Regionale CISL Scuola Umbria 

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Nella Roma del secondo dopoguerra, pattuglie delle truppe americane che stazionano ancora nelle strade della capitale. 

Un quartiere popolare non difficilmente identificabile con Testaccio, operai, venditori ambulanti, commercianti arricchiti. Le donne che vanno al mercato rionale con la retìna della spesa di corda (qualche anno dopo sarebbe diventata di plastica) e fanno la fila ai negozi di alimentari dove si possono prendere pane e pasta, così da mettere in tavola qualcosa per figli e mariti. 

I bambini giocano nei cortili dove le donne scelgono la cicoria, fanno la maglia chiacchierando tra loro e sentono e vedono tutto, ma senza poter intervenire contro le vessazioni che le mogli e le figlie possono subire in una famiglia allargata che abbraccia il caseggiato. 

Ci si potrebbe aspettare una rappresentazione alla Rossellini, o alla De Sica, ma il film “C’è ancora domani”, opera prima da regista di Paola Cortellesi, è lontano dalla volontà documentaristica del Neorealismo, anche se non si può non andare con la mente a quel momento del nostro cinema, alle situazioni e ai personaggi di quella stagione. Ci troviamo piuttosto di fronte alla narrazione della vita di personaggi che agiscono in un tempo e in uno spazio ben definiti, in cui la tragicità delle situazioni rappresentate viene alleggerita da una comicità lieve ed elegante, che non scade mai nella volgarità crassa, nel bozzetto semplificante. 

D’altro canto il film non ambisce a dare una rappresentazione realistica del secondo dopoguerra, quanto a darne uno spaccato sentimentale, raccontando “una giornata particolare” di grande storia attraverso la vita di una donna qualunque, di una famiglia qualunque. 

Una donna come tante in quel tempo, e come purtroppo ancora oggi, vittima del maschilismo violento e brutale del marito, che matura in modo solitario la sua ribellione. 

Maschilismo che, nel caso del marito di Delia, la protagonista, assume l’aspetto brutale della violenza fisica, delle vessazioni e umiliazioni psicologiche, ma che riguarda tutte le altre donne, dalla moglie del commerciante a quella del notaio, tutte messe a tacere in modi più o meno urbani dai mariti, a seconda del grado di istruzione e dell’appartenenza alla classe sociale, ma tutte private della parola. 

Quella parola comune, che nasce da condizioni condivise accettate come un destino immutabile, che queste donne si riprenderanno nel modo che rivela il finale, in qualche modo “spiazzante,” del film. 

Quel riconoscersi e darsi valore che è alla base dell’amicizia tra Delia e Marisa, amicizia tra donne, sorellanza ante litteram, che sostiene nel rapporto con gli uomini, i mariti, i padroni e che, anche quando diventa conflittuale come nel caso della vicina di casa, è solidarietà concreta, sostegno verso la più debole. Anche se essa non assume la dimensione dell’emancipazione politica, pur non estranea alle donne di quel periodo, spesso appartenenti ad altre classi sociali, o che hanno operato una presa di coscienza politica, poche in realtà. 

Nel rapporto tra Delia e la figlia Marcella emerge l’importanza fondamentale per l’autostima femminile del rapporto con la propria madre e la necessità che questa rappresenti un modello positivo da seguire. Delia sopporta la sua condizione proprio per dare alla figlia un futuro diverso dal suo, e quando si rende conto che Marcella corre il rischio di ripetere la sua storia di subordinazione al futuro marito, interviene per interrompere il rapporto con il giovane che rappresenta anche la possibilità di emancipazione sociale, ma che da sola non basta a permetterle di emanciparsi realmente in quanto donna. E la figlia, che non sopporta la debolezza della madre perché vi vede riflessa la propria, scoprirà la madre ed esse si riconosceranno proprio nel gesto liberatorio e sorprendente di Delia alla fine del racconto. 

Una commedia dal gusto amaro che attrae e commuove il pubblico (il film, al momento in cui scrivo, è entrato nella top ten dei film che hanno incassato di più nella storia della cinematografia italiana), grazie soprattutto a un’attrice-regista intelligente, che ha il merito di aver ripreso a parlare di un periodo della nostra storia sociale e politica, della condizione della donna in quel tempo con umiltà e autenticità, scegliendo una cifra di comicità lieve, a tratti malinconica, alla Chaplin. 

Quello che potrebbe essere un limite del film sta forse nella molteplicità di temi e situazioni presentati, che avrebbero bisogno di altri film per essere sviluppati, ma ciò permette alla regista di dare un quadro d’insieme, di realizzare un affresco autentico e non pretenzioso dell’Italia appartenente ad un passato non ancora alle nostre spalle. I femminicidi di oggi hanno le loro radici anche nel non aver affrontato in modo collettivo la liberazione della donna, la necessità che essa sia riconosciuta come soggetto autonomo, indipendentemente dal rapporto con l’uomo, padre, marito, compagno. 

Il film si presta bene ad essere utilizzato come strumento didattico a scuola: il ruolo della famiglia nella costruzione dei ruoli maschili e femminili, il ruolo delle donne, l’importanza della loro partecipazione alla vita politica, la necessità di un’emancipazione che passa anche attraverso il cambiamento degli uomini, l’importanza dell’istruzione come strumento di emancipazione. 

Le difficoltà sempre maggiori che i docenti incontrano nell’insegnare la Storia a generazioni che vivono in un eterno presente, in una dimensione in cui il “virtuale” sta sostituendo il “reale”, potrebbero trovare aiuto nel proporre un’opera che racconta vicende reali in un modo lieve, che quindi può attrarre di più i giovani. Non si fraintenda, si tratta di strumenti “incipiali” che non sottraggono dal lavoro faticoso di ricostruzione e analisi che la Storia comporta e che bisogna far conoscere ad alunni e studenti, ma vanno nella direzione di un’auspicata semplificazione, utile soprattutto agli studenti che provengono da famiglie e contesti in cui mancano adeguati supporti culturali. 

Cortellesi, pur nella sua cifra di lieve comicità, dà un contributo a tematiche e a un momento storico quasi non visitato dal nostro cinema, realizzando un’operazione coraggiosa che priva di intellettualismi, e forse proprio per questo, amplia la platea di coloro che possono essere raggiunti da questi temi e dà un contributo magari un po’ didascalico, ma non banale, alla riflessione. 

E come già in altri suoi film che la vedevano come attrice (penso ad esempio a “Scusate se esisto”), Cortellesi ci parla della condizione delle donne e degli uomini, andando questa volta alle radici moderne della condizione delle donne in Italia, nella consapevolezza che il futuro si costruisce dalla conoscenza del passato, non dalla sua rimozione. 

La domanda è: “Quale futuro?” La risposta è ancora da costruire. 

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