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Forme geometriche

GENTE di

SCUOLA

Generazioni 
Made in Italy

Scrittore e insegnante di scuola superiore

Osservo, ascolto. Quand’ero bambino (sono del ‘66) e i vecchi giocavano a carte, ce n’era sempre uno che diceva, a un certo punto: “Zaino a terra”. Significava che non aveva più carte da giocare e che aveva perso la speranza di poter giocare ancora con piacere o con qualche risultato positivo; però, restava seduto al tavolo, osservava il gioco degli altri, conversava, mescolava il mazzo e distribuiva altre carte se ce n’era bisogno, pronto anche a ordinare un nuovo giro di bibite o di caffè per chi giocava ancora. Ecco, sempre più spesso mi sento così: e prendo sul serio quello che vedo e sento, da buon analista che comunque insegna dal 1991. 


Vedo colleghe scoraggiate di fronte a studenti spesso indifferenti, nascosti dietro gli schermi dei tablet e dei pc nelle retrovie dei nuovi “ambienti di apprendimento”, ma consolate dalla presenza di altri in prima fila, realmente desiderosi di dialogo; ascolto le discussioni sul nuovo “liceo del Made in Italy” e penso che anche questa proposta, quale ne sia l’origine culturale o l’intenzione politica, possa avere un significato ulteriore nelle pieghe nascoste dell’anima. 


Ci sono “storie comuni” (l’espressione è del sociologo Paolo Jedlowski) che esprimono l’identità di un corpo sociale, e all’interno delle quali un sapere condiviso viene trasmesso da una generazione all’altra: ogni società si prende cura dei suoi giovani, per inserirli nella “grande catena delle generazioni” (James Hillman) attraverso un percorso di insegnamento pensato per loro. 


La scuola di impianto gentiliano è onnicomprensiva e ricorsiva ma soprattutto storica: fa Storia della letteratura e della filosofia, non letteratura o filosofia; il suo intento è costituire una memoria nazionale, un patrimonio di storie, un orizzonte comune di riferimento per la società italiana, alla presenza costante dei morti. In questo contesto, i “contenuti” sono tutto: il “programma” garantisce l’omogeneità della memoria collettiva e dà gli elementi di un discorso comune al quale le giovani generazioni sono chiamate a partecipare; chi insegna ha un ruolo riconosciuto e importante, perché questa trasmissione abilita i giovani alla vita civile, che è appunto un dialogo tra i vivi e i morti proteso al futuro della nazione; la lezione è frontale, perché i “vecchi” conoscono ciò che i giovani devono sapere. È appunto questo rapporto a essere cambiato, anche se un discorso comune e una memoria collettiva in rapporto con i morti rimangono un’esigenza insopprimibile al fondo dell’anima umana. 


Quando si chiede all’insegnante di essere un “facilitatore in un percorso di auto-apprendimento”, si presuppone che la nuova generazione non abbia alcun bisogno della “vecchia” se non in termini puramente funzionali: ciò che le serve non è una memoria collettiva che la unisca alle generazioni precedenti ma una narrazione immediata da costruire autonomamente. 
Nella “didattica per competenze” si agisce sapendo che i contenuti sono puramente strumentali all’acquisizione delle competenze stesse, e che il loro valore è relativo ad esse: ciò che conta non è leggere Dante ma imparare a decodificare un testo (e ci sono testi ben più adatti a questo fine); ciò che importa non è conoscere Michelangelo, ma saper guardare un’immagine. 


Lo scopo non è più, nemmeno in parte, la costruzione di una memoria collettiva e di una narrazione condivisa protese al futuro: le “competenze” sono molto pratiche e mirano espressamente al presente – si tratta di saper lavorare qui e adesso e di saper essere “imprenditori di se stessi”, non di vivere coscientemente nella “grande catena delle generazioni” per partecipare attivamente, quando verrà il nostro turno di viverlo da protagonisti, al dialogo immenso tra i vivi e i morti che ci supera e ci fonda. 

Anche la sostituzione dell’aula di classe con gli “ambienti di apprendimento” sembra rispondere all’idea che uno spazio comune non serva più perché non c’è più un discorso comune da portare avanti: è meglio lavorare in ambienti specializzati, finalizzati ai singoli apprendimenti, nei quali si perdono sia l’identità del gruppo-classe sia l’unità del percorso formativo, ma nei quali ciascuno ha personalmente a disposizione il meglio delle nuove tecnologie. Del resto, il mondo digitale è fatto di singoli nascosti dietro a una tastiera che interagiscono tra loro solo a fini pratici: lo strumento tecnologico è determinante, ed è la tecnologia applicata a “creare rete”, non le persone che la utilizzano. 


L’idea che l’insegnante non debba più essere qualcuno che “trasmette saperi” ma un aiutante nell’acquisizione autonoma di competenze nuove, concrete e utili (la padronanza dei nuovi linguaggi, le potenzialità dell’intelligenza artificiale, la cultura dell’immagine, l’utilizzo dei social media per l’autopromozione e per il marketing) ha radici profonde.  


Oggi, il concetto di “Made in Italy” viene proposto ai giovani come crocevia di saperi condivisi, punto di incontro tra generazioni presenti e passate che hanno costruito a poco a poco, nei secoli, qualcosa di specifico e riconoscibile (cioè la peculiarità italiana da valorizzare e da diffondere perché sia sempre più apprezzata nel mondo). Forse esso, nelle profondità dell’anima dei giovani, cercherà di rispondere anche all’esigenza di un dialogo rinnovato, di un discorso comune che ci unisca tutti (compresi i morti: questo è importante), quale che sia la sua matrice politica o culturale. Vengono alla mente gli scritti di Carlo Cattaneo, che vedeva nell’artigianato delle diverse regioni d’Italia il potenziale punto di forza della nuova unità politica ed economica del Regno futuro. Però, dipenderà dai morti: se lo vorranno, risponderanno. 

La lezione frontale evoca il legame

tra vecchie e nuove generazioni, mentre il facilitatore di un percorso

di autoapprendimento rigetta l’impianto storicistico di Gentile.

Il nuovo Liceo del Made in Italy terrà fede alle aspettative per una scuola crocevia di saperi condivisi? 

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