top of page

La negazione dell’umanità nei conflitti 

La deumanizzazione è una forma radicale di svalutazione che nella storia ha sempre accompagnato conflitti e stermini. La propaganda politica e bellica, impiegando metafore di contenuto animale, biologico, demonizzante è lo strumento usato per far sì che l’opinione pubblica tolleri le violazioni dei diritti umani. La scuola può favorire la conoscenza dei processi deumanizzanti, approfondendo le conseguenze della loro applicazione sulla vita di individui e comunità. 

Pedagogista.

Direttore del Centro Psicopedagogico

per l’educazione e la gestione dei conflitti

VOLPATO.JPG
VOLPATO.JPG

La deumanizzazione, la negazione o sottrazione dell’umanità all’altro è una forma radicale di svalutazione che nel corso della storia ha sempre accompagnato conflitti e stermini. Essa può assumere forme diverse, le più comuni sono: l’animalizzazione, che confina l’altro, il diverso, il nemico nel mondo animale, negandogli le qualità tipiche dell’umano e accusandolo di irrazionalità, immaturità, mancanza di cultura, incapacità di controllo su di sé e sul mondo esterno; la demonizzazione, che lo trasforma in demone, diavolo, strega, attribuendogli poteri magici che ne accentuano la pericolosità e ne legittimano l’eliminazione; la biologizzazione, basata su metafore legate alla malattia e all’igiene, che patologizza il nemico come virus, peste, cancro, sporcizia; la meccanizzazione, che considera l’altro un organismo meccanico, un automa, un robot, incapace di provare emozioni e di suscitare sentimenti di affetto, compassione, empatia; l’oggettivazione, che degrada l’umano a oggetto, strumento, merce. 

Tali forme sono armi di oppressione, impiegate da gruppi potenti per sfruttare, umiliare, distruggere gruppi più deboli; atti negativi estremi nei confronti di un gruppo percepito come nemico sono infatti permessi e facilitati dalla riduzione o dalla negazione dell'umanità di tale gruppo. La deumanizzazione costituisce così un’arma fondamentale per chiunque progetti azioni di violenza estrema verso altre persone o comunità. Sterminare, uccidere, violare bambini, donne, uomini contrasta con i principi che le società insegnano ai propri membri per poter continuare a esistere e a pensarsi come società. Quando, però, interessi e ideologie portano un gruppo a intraprendere lo sterminio dell’altro, negare a quest’ultimo le caratteristiche costitutive dell’umanità aiuta a porre in atto nei suoi confronti azioni impensabili in un contesto “normale”. La deumanizzazione attenua infatti, fino a sopprimerle, l’empatia e la compassione che proviamo quando vediamo soffrire i nostri simili; essa è quindi funzionale a propositi di annientamento e genocidio. La deumanizzazione costituisce anche una risorsa essenziale nelle pratiche di tortura perché dichiarare la non appartenenza della vittima all’universo umano, considerandola un animale o una semplice cosa, consente l’esecuzione di ogni efferatezza. 

Un contenitore ricchissimo di metafore deumanizzanti è il Mein Kampf hitleriano, nelle cui pagine vengono ossessivamente proposte immagini animali per descrivere i gruppi ritenuti nemici. Ebrei, marxisti, “razze” inferiori, gli odiati partiti borghesi sono descritti come idre, avvoltoi, iene, serpenti, vipere, lupi, ratti, parassiti, pidocchi, cimici, insetti, vermi. In altri brani sono invece biologizzati – additati come aborti, virus, immondizia, cancro, peste – o demonizzati come vampiri avidi del sangue del popolo tedesco. 

Sul finire degli anni Trenta, l’esempio hitleriano venne seguito, nel nostro paese, da una parte rilevante della stampa fascista; il caso più eclatante fu costituito dalla Difesa della Razza, un bimensile voluto dal regime e pubblicato tra l’agosto 1938 e il giugno 1943, che deumanizzava senza reticenze sia gli ebrei, sia tutti i popoli soggetti alla colonizzazione occidentale, in primis gli africani, continuamente raffigurati come scimmie antropomorfe. Il periodico impiegava metafore molteplici e immaginifiche, di contenuto animale, biologico, demonizzante. 

Gli esiti ultimi di tali pratiche sono stati ampiamenti illustrati dalla letteratura e dalla memorialistica relative alla Shoah. In Se questo è un uomo, per esempio, Primo Levi descrive come il processo di “demolizione” dell’umano, teso a trasformare i prigionieri dei campi di sterminio in “non-uomini”, fosse percepito e interiorizzato anche da chi lo subiva. Levi mostra infatti in modo pregnante come la deumanizzazione riguardi sia le vittime, sia i carnefici, perché tutti coloro che si muovono nell’universo concentrazionario subiscono un tragico e spesso definitivo impoverimento della loro personalità. 

Come detto, processi deumanizzanti appaiono in tutti i conflitti bellici perché servono a molteplici funzioni: da un lato compattano il fronte interno, rafforzando l’identità sociale degli aggressori che si sentono i soli uomini degni di questo nome, dall’altro fanno percepire il nemico come un coacervo di esseri subumani o sovraumani, meritevoli comunque di annientamento. Il Musée de l’Armée, situato presso l’Hotel des Invalides di Parigi, presenta nelle sue collezioni permanenti una serie eccezionale di manifesti di propaganda risalenti alla prima e alla seconda guerra mondiale che mostrano le diverse e complesse forme di deumanizzazione del nemico, impiegate da tutti gli stati in guerra, indipendentemente dal fatto che si trattasse di stati democratici, autocratici o totalitari. 

Parlando di un periodo a noi più vicino, studi relativi ai conflitti che purtroppo caratterizzano il secolo presente hanno, per esempio, rilevato come, dopo l’11 settembre, siano state impiegate strategie deumanizzanti al fine di costruire il consenso alla “guerra al terrore” e far sì che l’opinione pubblica occidentale tollerasse le violazioni dei diritti umani e trascurasse l’incidenza dei “danni collaterali” sofferti dalle popolazioni civili. 

L’etichetta “guerra al terrore” si è rivelata uno strumento potente nella costruzione dell’immagine di un nemico non identificabile con uno Stato. Termini quali “nemici combattenti” e “terroristi” hanno permesso di sottoporre i prigionieri a trattamenti vietati dalla Convenzione di Ginevra. Il termine “terrorista”, in particolare, è servito a creare una categoria di individui ai quali non vengono applicati i diritti riconosciuti internazionalmente agli esseri umani, individui che possono essere uccisi al di fuori dalle azioni militari e possono essere rinchiusi in lager, quali Guantanamo, sottratti alla giurisdizione ordinaria. 

Durante guerre e conflitti, i soldati vengono addestrati a percepire il nemico come uno spettro minaccioso, che ha perso la fisionomia umana e ha assunto tratti e caratteristiche che lo allontanano dalla comune appartenenza all’universo civile. Vengono impiegati, per additarlo, termini quali “mostro” o “verme”, che servono a confinarlo nell’ambito di una specie diversa, eliminando la condivisione dell’identità umana e, con essa, possibili forme di vicinanza o empatia. Questi processi legittimano la violenza e rendono più facile giustificare azioni estreme, che in altri contesti sarebbero definite immorali e inaccettabili e per questo perseguite. Le tecnologie oggi impiegate in ambito bellico amplificano la portata dei processi deumanizzanti. Le armi a distanza, come i droni, consentono infatti di uccidere senza vedere le persone colpite, contribuendo a far sì che gli agenti non si sentano emotivamente coinvolti e non provino empatia per le vittime delle loro azioni. Emerge qui un’altra forma di deumanizzazione, a mio giudizio non ancora sufficientemente studiata, la deumanizzazione per invisibilità, vale a dire la deumanizzazione che si pratica attraverso il silenzio, la disattenzione, la noncuranza, il ricorso al mero dato statistico che annulla la pregnanza dell’appartenenza umana. Pensare alle vittime di un conflitto come a un insieme di numeri anziché come a persone, ciascuna caratterizzata dalla propria individualità e soggettività, aiuta a distogliere lo sguardo dalle atrocità che sono state compiute o che si stanno tuttora compiendo. 

Le pratiche di deumanizzazione possono e devono essere contrastate attraverso percorsi culturali che aiutino i cittadini a prendere coscienza della loro pervasività e pericolosità. In questo panorama, la scuola può fare molto per favorire, fin dai primi anni, la conoscenza dei processi deumanizzanti, spiegandone struttura e modalità di impiego, e soprattutto approfondendo le conseguenze della loro applicazione sulla vita di individui e comunità. 

bottom of page