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La pace e l’obiezione
di coscienza nell’insegnamento di Don Milani 

Citando una quantità di produzioni epistolari di Don Milani, in primis la Lettera ai giudici protagonisti del suo processo romano, l’autore riporta numerosi esempi in cui il parroco di Barbiana spiega “il concetto della disobbedienza a leggi ingiuste e la contestazione attraverso gli strumenti di lotta non violenta: il voto e lo sciopero”. 

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Storico del cristianesimo presso l’università di Modena e Reggio Emilia

È più difficile fare il rivoluzionario che il conformista. Per fare il rivoluzionario bisogna essere lo specchio di ogni virtù. Ai preti conformisti invece è permesso perfino di tenere l’amante! 

Con la consueta e tagliente ironia Milani scriveva all’amico p. Mario Castelli il 17 novembre 1965, a conclusione di un anno quanto mai turbolento e sotto i riflettori. Aveva da poco concluso la scrittura della sua autodifesa, che diventerà celebre con il titolo di Lettera ai giudici per il genere ancora una volta scelto, quello epistolare, che permette di avere un destinatario preciso. Milani ricorse alla “lettera” per l’impossibilità di essere presente di persona al processo a Roma. Strano anno quel 1965, anche per il peggioramento della malattia che dal 1961 lo aveva attaccato e che gli fa accettare una scelta fino a qualche anno prima impensabile: farsi riprendere dalle cineprese di un regista, Angelo D’Alessandro, salito nel Mugello per fare una inchiesta sull’obiezione di coscienza e invece finisce per “catturarlo” nello svolgimento delle due attività per lui sacre: la messa e la scuola1. La decisione, sofferta, rispondeva anche a una esigenza contingente: far vedere quella scuola, tanto attaccata e incompresa dalla sua Chiesa, e soprattutto lasciare un testamento visivo della sua attività di sacerdote e, proprio in quanto sacerdote, anche maestro ed educatore. La scuola, in fondo, era per lui il suo VIII sacramento, affermazione scritta questa volta senza alcuna ironia nelle pagine di Esperienze pastorali nel 1958. 

Dovevo ben insegnare come il cittadino reagisce all’ingiustizia. Come ha libertà di parola e di stampa. Come il cristiano reagisce anche al sacerdote e perfino al vescovo che erra. Come ognuno deve sentirsi responsabile di tutto2. 

È con queste parole che nella sua autodifesa spedita al tribunale di Roma, presso il quale avrebbe dovuto presentarsi per il processo per apologia di reato il 30 ottobre del 1965, don Lorenzo Milani chiariva il motivo della presa di posizione pubblica, che avrebbe poi innescato la denuncia, contro il comunicato dell’11 febbraio firmato da un gruppo di cappellani militari in congedo della regione Toscana, pubblicato su «La Nazione» il giorno dopo, il 12 febbraio. 

In quanto sacerdote e maestro – spiegava ai giudici – aveva l’obbligo di fronte ai suoi ragazzi di «dar loro una lezione di vita», perché «un sacerdote che ingiuria un carcerato ha sempre torto. Tanto più se ingiuria chi è in carcere per un ideale»3

Milani aveva 42 anni e, dopo sette trascorsi come cappellano a San Donato, era dal dicembre 1954 priore di Barbiana. Aveva dunque finalmente la responsabilità di una parrocchia, come desiderava da tempo, ma la scelta del Monte Giovi nel Mugello non poteva non risuonare alle sue orecchie se non come un “esilio” da parte della sua diocesi, che ora nessuno prova più a smentire. Un esilio dovuto proprio al suo temperamento e alle sue scelte radicali, al giuramento «fatto a se stesso e agli altri di colpire quando c’è da colpire chiunque abbia da avere, senza rispetto di nessuno, alla ricerca della verità, oggettiva, che io credo che esista, la ricerca della verità oggettiva, la quale non è fatta né di carità, né di educazione, né di tatto, né di pietà»4, come ammetteva nella chiacchierata con alcuni studenti e professori di una scuola fiorentina di giornalismo, svoltasi anche questa nel dicembre del 1965, prima della ripresa del processo, prevista per il 14 dicembre 1965. 

Era ben consapevole che questo suo preciso programma non gli avrebbe permesso di «farsi strada», ma poco importava. Lo diceva al suo amico confratello don Ezio Palombo nel 1955: «Star sui coglioni a tutti come sono stati i profeti innanzi e dopo Cristo. Rendersi antipatici noiosi odiosi insopportabili a tutti quelli che non vogliono aprire gli occhi sulla luce. E splendenti e attraenti solo per quelli che hanno Grazia sufficiente da gustare altri valori che non siano quelli del mondo»5

Milani con quella sua lettera pubblica iniziò a essere, per una parte della società civile, politica, culturale, ma anche religiosa6, un esempio e un modello d’integrità evangelica. 

Sulle pagine de «L’Astrolabio», diretto da Ferruccio Parri, Ernesto Rossi scrisse: «Non sappiamo se don Milani sia più ammirevole per il contenuto delle sue idee, o per il coraggio di dichiararle pubblicamente. Troviamo comunque che egli non ci fornisce solo un esempio inconsueto di religiosità autentica, ma anche una testimonianza di coraggio civile, che non è certo da sottovalutare in una società tendente all’indifferenza e al conformismo»7

Nel 1965 dunque, nei mesi tra febbraio e dicembre, Milani e la sua scuola salirono alla ribalta della scena pubblica; il loro impegno civile, che prese le forme della scrittura collettiva, diventò il loro modo di prendere posizione di fronte alle ingiustizie, mettendo sempre, al centro, la parola/Parola. 

Con quelle due lettere Milani entrò però prepotentemente anche sulla scena del pacifismo italiano e internazionale, pur non partendo da posizioni ideologiche definite e coerenti8

Non è certo quello un tema nuovo per Milani, proprio filtrato attraverso la questione dell’obiezione di coscienza. Già nel 1962 era infatti intervenuto sull’argomento, nelle settimane in cui si stava svolgendo il processo al primo obiettore cattolico, Giuseppe Gozzini, che aveva così imposto il tema nell’agenda politica, sociale e culturale del paese in modo pubblico. 

Il 17 novembre 1962, a un mese dall’inizio del Concilio Vaticano II, durante una conferenza nella sala del Consiglio comunale di Calenzano, organizzata dai giovani del paese, il priore venne infatti chiamato come interprete per tradurre la relazione dell’ospite francese Jean Goss, esponente di spicco del movimento nonviolento e presidente del Movimento internazionale della riconciliazione9. Milani non si limitò al ruolo di interprete, ma commentò e prese posizione sul tema, come avrebbe fatto lo stesso Balducci, poche settimane dopo, pagando di persona10, proprio nelle settimane in cui mons. Pietro Pavan stava preparando l’enciclica sulla pace fortemente voluta da papa Giovanni XXIII dove peraltro, in quella fase redazionale, si proponeva un’apertura all’obiezione di coscienza che poi non troverà spazio nella versione finale11. Goss aveva preparato un dossier sulla nonviolenza e sulla guerra, che sarebbe stato presentato in Concilio. Milani ne diede conto all’amico giornalista Giorgio Pecorini, in una lettera del 17 dicembre successivo in cui tratteggiò il profilo del proprefetto del Sant’Uffizio sempre con la consueta ironia (spesso dimenticata) che contraddistingueva la sua scrittura privata: 

Sapevi che Ottaviani è un sostenitore appassionato da anni della più moderna interpretazione anzi applicazione delle condizioni di S. Tommaso per la guerra giusta e cioè che nega che ci possa oggi essere una guerra giusta? Tutte le pubblicazioni non violente del mondo citano Ottaviani insieme a Gandhi! L’avresti mai detto? Eppure è così. E c’è anche una spiegazione. C’è arrivato perché non capisce nulla. Ha preso le 5 condizioni di S. Tommaso, ha controllato come una calcolatrice elettronica se rispondevano ai dati di fatto sulla guerra moderna. Ha visto che non. E così è diventato il portabandiera dei non violenti. 

Nella stessa lettera, gli chiedeva di sensibilizzare i suoi colleghi alla manifestazione davanti al tribunale militare il 20 dicembre a Firenze, organizzata per sostenere proprio la causa di Gozzini: 

[…] ci sarà a Firenze davanti al Trib. militare il processo del giovane cattolico milanese Giuseppe Gozzini obiettore. Se sarà condannato è fissato che i non-violenti fiorentini e non fiorentini digiuneranno in piazza duomo per tutto il giorno di Natale. Sono favorevolissimo alla manifestazione per molti motivi. Non ho mai partecipato alle marce della pace perché non appare chiara la loro utilità. Ma qui invece appare. C’è l’immediatezza della cosa. C’è che è cattolico. Una rarità tra gli obiettori che son tutti protestanti. E loro sono assistiti dalla solidarietà della loro chiesa. 

Giuseppe no. Poi c’è la difficoltà per ognuno di lasciare il pranzo familiare il giorno di Natale. Insomma a me mi pare molto sana cosa e ho intenzione di andarci con tutti i ragazzi che vorranno (di S. Donato e di qui). Purtroppo, non potrò esserci prima di mezzogiorno perché ho da dire le Messe. Comunque la notizia della mia partecipazione è segretissima perché non voglio che mi arrivi la proibizione prima del fatto12

Un’ulteriore conferma di come il tema della pace fosse un argomento non peregrino nella sua scuola lo si ha da una risposta che Milani inviò proprio a Giuseppe Gozzini, il 5 marzo 1965. Chiedendogli scusa di non essersi fatto vivo ai tempi della sua detenzione e del processo a Firenze, gli confessò che nel 1963 «si lesse però la tua lettera a scuola e si progettò di fare tante cose che poi non si fecero»13

Don Primo Mazzolari, Aldo Capitini, Danilo Dolci in campo italiano, Gandhi, Martin Luther King per quello internazionale erano riferimenti e letture che venivano fatte a Barbiana proprio per innervare nei suoi giovani ragazzi quel tipo di consapevolezza. Quelle riflessioni facevano poi parte di un clima, a Firenze, che si poteva respirare e toccare in una serie di iniziative che vedevano in La Pira uno degli animatori di queste posizioni. Il 18 novembre del 1961 La Pira organizzò anche la celebre proiezione del film Tu ne tueras pas di Claude Autant-Lara, ispirato a un fatto di cronaca del 1948 che aveva al centro proprio il tema dell’obiezione di coscienza. 

Milani agì infatti in un contesto particolare, non certo isolato, anzi. Sono gli anni del Concilio, ma in particolare era la città di Firenze guidata da La Pira a essere centrale nel dibattito sulla pace e la nonviolenza in quegli anni, «uno dei luoghi più significativi per coglier[ne] le esigenze, le proposte e anche le difficoltà e contraddizioni», tanto da poter parlare di «germinazione fiorentina» a proposito delle numerose iniziative di pace intraprese dal sindaco nato a Pozzallo. 

Come ha scritto Bruna Bocchini Camaiani: «Un dibattito molto ampio caratterizza Firenze nella prima metà degli anni Sessanta, del quale la Lettera ai cappellani militari di don Milani è un capitolo molto interessante, ma in qualche modo l’epilogo di un processo di più vasta portata. L’ampiezza e la pluralità degli interventi sui temi della guerra nucleare, la rimessa in discussione della tesi teologica della guerra giusta, la difesa della obiezione di coscienza e, infine, anche una proposta di una soluzione legislativa in questo senso, hanno proprio a Firenze, che La Pira considerava città “laboratorio”, il proprio luogo naturale, in un intrecciarsi di iniziative e, talvolta, di polemiche, inconsueto nel panorama cattolico italiano»14

Il tema però a Barbiana non matura nell’ambito della riflessione sul pacifismo. È il comunicato dei cappellani che Milani legge su «La Nazione» a rappresentare il casus belli che innesca la decisione di rispondere. Lo scrivere, o meglio «l’arte dello scrivere», come la definisce lo stesso Milani, è per lui un partire sempre da un caso concreto; è una scrittura di denuncia che ha sempre un destinatario, singolo o collettivo che sia (ecco perché la scelta del genere epistolare). Esattamente come il licenziamento di Franco lo spinse nel 1949 a prendere in mano la penna e scrivere il suo primo articolo, Franco perdonaci tutti: comunisti, industriali, preti e il disagio che gli provocò il constatare la dignità violata dei suoi parrocchiani che non possedevano una casa lo portò a inviare ad «Adesso» il testo Natale 1950. «Per loro non c’era posto» e a denunciare quella situazione. 

La lettura del comunicato gli permise non solo di fare scuola ai ragazzi, ma di ripretendere in modo più sistematico una riflessione iniziata già qualche anno prima, che ha a che fare con la pace, ma che in particolare tocca nervi ancora più profondi che emergeranno chiari in quello che, purtroppo, è diventato sempre più uno slogan: «l’obbedienza non è ormai più una virtù, ma la più subdola delle tentazioni». 

Come si è visto, però, il tema era ben radicato in quella scuola già da anni e aveva preso forme particolari, come il dimenticato lavoro sul galateo. L’ipotesi di un altro libro dopo Esperienze pastorali si era affacciata nella mente di Milani nel 1961: Appunti per un nuovo galateo, questo il titolo. Un galateo ovvero «corretto secondo esigenze più essenziali sia cristiane che socialiste», come confidava alla mamma nella lettera del 23 ottobre 1961. Sulla scorta della lettura del libro del sociologo Vance Packard, I cacciatori di prestigio, pubblicato in traduzione da Einaudi nel 1961 dopo I persuasori occulti, dove denunciava il modo in cui la pubblicità minacciava la libertà di opinione, aveva ipotizzato anche un altro titolo, più ironico: Cacciatori d’un alto prestigio. 

Il progetto si era arenato poco tempo dopo, ma fece in tempo a raccogliere materiale, come sua abitudine, e a spiegarne l’idea a diversi amici. A Elena Pirelli Brambilla il 14 dicembre ne scrisse per chiedere informazioni e materiali e ne approfittava per chiarire l’idea: 

una critica al galateo attuale e dovrà servire agli operai e soprattutto ai sindacalisti ecc. Avrà gradazioni diverse: una dirà come si potrebbe già comportarsi e una come si può prevedere che ci si comporterà domani. L’importante è che gli operai non accettino, senza vagliarle, le regole della buona creanza borghese. Un vaglio evangelico socialista e razionale. Qualcosa resterà in piedi, qualcosa dovrà cadere subito15

È interessante riprendere quel progetto anche in questa sede perché l’idea del nuovo galateo conteneva in forma embrionale una riflessione che sarà al centro della lettera ai cappellani militari e poi in forma più sistematica nella lettera ai giudici, su cui poi si innesterà il tema della pace. 

Lo spiega bene nella lettera all’avvocato e amico Corrado Bacci nel febbraio 1962, nove mesi prima dell’arresto di Gozzini e tre anni prima delle sue lettere pubbliche: 

uno dei capitoli del mio galateo s’intitolerà press’a poco «Con le autorità» e vorrei che contenesse un elenco di possibilità di non piegarsi senza intaccare il codice. Per es. ho sentito dire che all’ordine di disperdersi si può rispondere: «Si metta la sciarpa tricolore e suoni tre squilli di tromba». Se la notizia è esatta vorrei averne gli estremi (art. tale del regolamento di polizia). Di questi e consimili articoli di legge vorrei dare l’esatta indicazione e aggiungere i consigli pratici sul modo di rispondere volta volta al poliziotto che fa una contravvenzione, a quello che vuol impedire una manifestazione seduta in mezzo alla strada, a quello che fa sgombrare una fabbrica occupata, a quello che vuol impedire di tenere un cartello di sciopero a meno di 200 metri dai cancelli ecc. Questo capitolo bisognerà bene che me lo prepariate voi avvocati. Non nel senso che vorrò insegnare ai miei lettori a osservare scrupolosamente i codici, ma perché dovrò sempre avere davanti agli occhi diverse gradazioni di lettori: quelli che vorranno solo divertirsi a irridere ai poliziotti senza rischiare nulla e lo faranno solo per abituarsi a sentirsi sovrani secondo l’art. 1 della Costituzione, quelli che vorranno invece rischiare qualcosa per far mutare qualche legge che non va, ma allora vorrò informarli esattamente dell’entità dei rischi, perché essi possano misurare le proprie [scelte] di fare una generosa sciocchezza. Naturalmente non ci limiteremo ai rapporti coi poliziotti, ma anche a quelli coi cosiddetti «superiori militari» (dal prezzo dell’obiezione di coscienza oggi, a ciò che si può invece dire e fare perché sia adottata dal legislatore domani, a quello che si può esigere da un ufficiale: non lasciarsi fare la rapa per punizione, non prender pedate nel sedere, non accettare ingiurie, non accettare purganti per punizione; di queste quattro cose ho sentito diversi racconti da ragazzi di leva)16

È il concetto della disobbedienza a leggi ingiuste e la contestazione attraverso gli strumenti di lotta non violenta: il voto e lo sciopero. 

1 F. Ruozzi, Riflettori su Barbiana: teatro, cinema e televisione, in Salire a Barbiana. Don Milani dal Sessantotto a oggi, a cura di R. Michetti, R. Moro, Roma, Viella, 2017, pp. 153-203. 

2 L. Milani, Lettera ai giudici, ora in Don Milani. Tutte le opere, diretta da A. Melloni, a cura di F. Ruozzi, e di A. Carfora, V. Oldano, S. Tanzarella, Milano, Meridiani Mondadori, 2017, I t., p. 941. Qui si può trovare l’edizione critica e la Notizia ai testi, di S. Tanzarella. Tutte le citazioni alle opere e alla corrispondenza privata di Milani sono tratte da questi due tomi mondadoriani, dove è possibile trovare l’opera omnia di Milani in edizione critica. 

3 Ibidem.  

4 Strumenti e condizionamenti dell’informazione, in Tutte le opere, cit., I t., p. 1339. 

5 Lettera a E. Palombo del 25 marzo 1955, in Tutte le opere, II t., p. 362. 

6 Tra le poche lettere di solidarietà da parte di autorità ecclesiastiche, va segnalata quella di mons. Bruno Frattegiani, arcivescovo di Camerino, che il 7 marzo 1965 gli scrisse: «[…] pur permettendomi qualche riserva per …le sassate in piccionaia, sento il bisogno di dirle: “Dio la benedica per la sua nobile lettera”» (Lettere di don Lorenzo Milani Priore di Barbiana, cit., p. 291). Milani infatti il 15 novembre, spedendogli le due lettere, gli confessò: «[…] nello scrivermi quel biglietto lei intendeva farmi piacere, ma certo non poteva indovinare che fame io avessi d’un biglietto così e d’ogni altra manifestazione di solidarietà cattolica» (Tutte le opere, cit., II t., p. 1201). 

7 E. Rossi, La patria del cristiano, in «L’Astrolabio», 15 marzo 1965, p. 6. 

8 Dorothy Day conobbe la figura di Milani grazie alla traduzione in inglese delle due lettere pubbliche. Ne scrisse il necrologio su «The Catholic Worker», 1, 5, July-August 1967, p. 1. 

9 Su Goss, H. Goss-Mayr, Oser le combat non violent. Aux Côtés de Jean Goss, Paris, Cerf, 1998.  

10 Ne dà conto nella lettera a G. Pecorini del 17 dicembre 1962, in ibidem, II t., pp. 904-906. Lo scolopio Ernesto Balducci era intervenuto il 13 gennaio 1963 sul «Giornale del Mattino» sostenendo la causa di Giuseppe Gozzini, obiettore di coscienza cattolico, condannato per essersi rifiutato di prestare servizio militare. Per questo Balducci venne denunciato per apologia di reato. La sentenza di assoluzione del 7 marzo 1963 venne impugnata e il 15 ottobre in Appello Balducci fu condannato a otto mesi. La sentenza fu confermata in Cassazione il 1° giugno 1964. Cfr. F. Fabbrini, Tu non uccidere, Firenze, Cultura Editrice, 1966. Cfr. E. Balducci, Diari (1945-1978), a cura di M. Paiano, Brescia, Morcelliana, 2009, p. 438. 

11 A. Melloni, Pacem in terris. Storia dell'ultima enciclica di Papa Giovanni, Roma-Bari, Laterza 2010. Sulla Pacem in terris Milani ne scrisse alla mamma proprio nei giorni dell’uscita: «è evidente che i cattolici siamo noi che abbiamo amato i comunisti e i lontani in genere e non quelli che li hanno combattuti. Siccome l’unica cosa che potevano rimproverarmi è d’essere allora in anticipo di 10 anni sui tempi, ora che sono un superato perfino dalla maggioranza dei Padri Conciliari voglio segni d’onore e non dispettini» (lettera dell’11 aprile 1963). 

12 Lettera a G. Pecorini del 17 dicembre 1962, in Tutte le opere, cit., t. II, pp. 904-905. 

13 Lettera a G. Gozzini del 5 marzo 1965, in ibidem, p. 1056. Tra gli autori che venivano letti a Barbiana vi era anche Gandhi. Come ricorda Milani stesso nella Lettera ai giudici, «Questa tecnica di amore costruttivo per la legge l’ho imparata insieme ai ragazzi mentre leggevamo il Critone, l’Apologia di Socrate, la vita del Signore nei quattro Vangeli, l’autobiografia di Gandhi, le lettere del pilota di Hiroshima» (ibidem, t. I, p. 945). A Barbiana molto probabilmente si leggeva anche un volume promosso dall’Unesco nel 1956, che raccoglieva una serie di saggi di Gandhi per commemorare la sua vita e il suo pensiero: Antiche come le montagne, Milano, Edizioni di Comunità, 1963.  

14 B. Bocchini Camaiani, Il dibattito fiorentino sull’obiezione di coscienza: il «laboratorio» fiorentino 1961-1962, in La spada e la croce. I cappellani italiani nelle due guerre mondiali. Atti del XXXIV Convegno di studi sulla Riforma e i movimenti religiosi in Italia, Torre Pellice, 28-30 agosto 1994, a cura di G. Rochat, in «Bollettino della società di studi valdesi», 176, 1995, pp. 251-286; Ead., La Firenze della pace negli anni del dopoguerra e del concilio Vaticano II, in M. Franzinelli e R. Bottoni (a cura di), Chiesa e guerra. Dalla «benedizione delle armi» alla «Pacem in terris», Bologna, Il Mulino, 2005, pp. 509-538, in part. p. 509. Lo stesso Balducci ricordò come «A scadenza di ogni due anni ci fu un processo il cui vero tema era il primato della coscienza. La germinazione fiorentina era questa e, secondo me, La Pira aveva colto nel segno» (Balducci, Ci aspetta domani, cit., p. 34).  

15 Lettera a E. Pirelli Brambilla del 14 novembre 1961, in Tutte le opere, cit., II t., p. 832. 

16 Lettera a C. Bacci del 2 febbraio 1962, in Tutte le opere, cit., II t., pp. 851-852.  

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