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Forme geometriche

GENTE di

SCUOLA

 Lorenzo Gobbi
   Professionisti
   della vita accorta

   

 

Professionisti
della vita accorta

Il docente è custode di attenzione

e cura: accompagna i giovani         

tra fragilità e speranze,                        trasmettendo saperi e dignità.                Professionista della vita accorta,          rende possibile un incontro

fecondo tra generazioni:

è questa la sua professionalità.

Scrittore e insegnante di scuola superiore

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Non siamo psicologi, si sente spesso ripetere in sala docenti: non siamo assistenti sociali, non siamo “facilitatori”, non siamo operatori sanitari, non siamo formatori né certificatori, non siamo babysitter, non siamo esperti di media, non siamo orientatori, non siamo tecnici informatici, non siamo burocrati, non siamo impiegati, non siamo mediatori culturali, non siamo dei coach né dei team manager.

 

È vero! Cosa siamo, allora? Non è facile dare una risposta: in 34 anni di insegnamento (ho iniziato nel 1991), ho visto cambiare profondamente la nostra professione, non solo nella percezione della società, ma anche nella concretezza della vita quotidiana. Ci siamo sentiti molto spesso respinti, sminuiti, messi all’angolo,  delegittimati,  fraintesi,  ostacolati  e  depotenziati,  da  un  decennio  all’altro  e  da  un contratto rinnovato a un altro: è un sentimento diffuso. Molti colleghi e colleghe rispondono con una rassegnazione passiva e un sentimento di crescente estraneità  rispetto  all’istituzione-scuola,  al  quale  però corrisponde un impegno profondo nello spazio protetto dell’aula, quando la porta si chiude e finalmente, con gli studenti e le studentesse che sono la nostra ragione di vita, possiamo fare “a modo nostro”.

 

Altri e altre, invece, si organizzano per propugnare attivamente l’irrigidimento dei protocolli, la competizione tra docenti, l’inasprimento   delle   sanzioni   disciplinari,   la   revisione   restrittiva   delle   griglie  di  valutazione, l’intensificazione  delle  verifiche,  la  necessità  di  “potare”  e  “scremare”, nell’ur-genza  di  “ridare dignità” alla scuola e autorevolezza ai docenti.

 

Per tutti, comunque, “è questione di professionalità”: il punto è questo. La normativa definisce la professionalità docente in termini di mansioni e responsabilità, e i suoi mutamenti sono molto significativi: io vorrei provare a definirla in termini interiori, nei limiti delle mie possibilità e a partire dalla mia esperienza. Direi che un docente è un professionista dell’attenzione, della vita interiore, dell’accortezza, della responsabilità. Trasmette un’eredità che dovrà dare frutti vitali: competenze linguistiche ma anche relazionali, conoscenze storiche, tecniche e scientifiche, consapevolezza del mondo e del tempo, capacità  di  fare  domande  utili  e  feconde  e  di  prendere  decisioni,  percezione  dei  legami  tra  le persone e le culture, abilità operative che abilitano alla vita attiva e responsabile.

 

Si  tratta  di  un  incontro  tra  generazioni:  nella  scuola,  una  generazione  consegna  all’altra  un patrimonio che dovrà essere rielaborato in forme nuove e che saprà trasformarsi in vita vissuta. Non si limita  a  “spiegare”  contenuti  e  a  verificarne  l’apprendimento  per  certificarlo,  ma  promuove relazioni significative a vari livelli, dal personale al sociale. La sua cortesia fa parte della sua professionalità; la sua disponibilità, la sua pazienza, la qualità della sua vita interiore, la sua benevolenza verso i giovani e le giovani che gli sono affidati per quel tratto di cammino sono inscindibili dalla sua autorevolezza; la sua correttezza morale nel porsi come figura di  riferimento  affidabile  e  coerente,  la  sua  capacità  di  una presenza  attenta,  la  sua  distanza dall’arbitrarietà e dal sopruso, il suo richiedere impegno a fronte del proprio personale impegno, la sua capacità di graduare le richieste e di modulare i linguaggi in base all’età degli studenti e alle tappe della loro crescita non sono degli accessori, ma tratti costitutivi.

 

Le difficoltà sono molte, e le conosciamo tutti: i nostri cahiers de doléances sono spesso veritieri. Ciò che i contratti e le normative non sembrano cogliere è che la professionalità di un docente è fatta di elementi che non si possono misurare perché sono fenomeni della vita interiore: il senso di responsabilità, ad esempio; l’accortezza nel rivolgersi a dei giovani e a delle giovani la  cui  vita è spesso segnata non solo da fragilità emotive e psicologiche, da catastrofi familiari, da disagi socio-economici o dalle vicende dolorose della migrazione delle loro famiglie ma anche da attese, progetti e speranze; la benevolenza verso chi è giovane e ha bisogno di attenzione; la prontezza nel gestire situazioni  difficili  e  impreviste;  la  pazienza nell’attendere  i  tempi  di  ciascuno;  la  disponibilità  a condividere, a collaborare, a sentirsi parte di un tutto vivente. In questo, purtroppo, sono tante le ragioni di sofferenza: le continue richieste di prestazioni sfibranti, il senso di isolamento e solitudine, la disistima da parte di alcune famiglie e a volte dei dirigenti e dei colleghi, le campagne diffamatorie che nascono ogni tanto sugli organi di stampa e sui social, la minaccia che viene da regolamenti e protocolli sempre più stringenti e lontani dalla realtà della vita scolastica, la sfiducia che percepiamo dolorosamente e, non ultime, le difficoltà crescenti dei meccanismi di reclutamento dei docenti, il continuo turn-over, i mutamenti repentini della normativa che confondono, svantaggiano  e umiliano.

 

Se  dobbiamo  “valutare  la  produttività”  in  termini  quantitativi (progetti,  attività  extracurricolari, risultati delle prove INVALSI e via dicendo), se il cuore dell’attività didattica è “la certificazione della competenza, conoscenza e abilità acquisite” tramite continue prove di valutazione, se la prestazione è il criterio per definire non solo la bontà degli alunni ma anche quella degli insegnanti, della dignità e del valore dell’esperienza  scolastica,  non  resta  quasi  nulla  per  nessuno e della  professionalità docente possiamo solo avere un’idea inadeguata. L’insegnamento “è un lavoro, non una missione”, sento ripetere, e sono perfettamente d’accordo, però dobbiamo  chiarire cosa  intendiamo  con  la parola  “lavoro”, un termine così importante  da aprire il testo della nostra Costituzione come fondamento esplicito della Repubblica.

 

L’insegnamento è una professione: richiede l’adesione a un mondo di valori, postula l’assunzione di una responsabilità,  presuppone  conoscenze  e  capacità  fissate  dalle  normative,  costruite  nel percorso  ormativo  e  verificate  nell’iter  di  reclutamento.  Ha  però  uno  statuto  speciale  che  va considerato: il contatto con i docenti, tra i 3 e i 19 anni, è un’esperienza significativa per migliaia e migliaia di giovani e per le loro famiglie, e ha un valore sociale e culturale incommensurabile. Durante la pandemia, nella prima e nella seconda ondata, mentre moltissimi medici e infermieri si offrivano volontari nelle unità Covid, moltissimi docenti erano il punto di riferimento dei giovani e delle famiglie: la scuola è entrata nelle loro case grazie alle lezioni on line, ed era con i docenti che studenti e famiglie si confidavano in cerca di supporto.

 

Forse è ancora presto per riflettere su ciò che è accaduto in quei due anni, ma quell’esperienza ci ha mostrato che non siamo né psicologi né assistenti sociali ma docenti: professionisti dell’attenzione, della presenza, della vita accorta.

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