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 Chiara Sabatini
   Morfogenesi cellulare ingegnerizzata
   e limiti etici



 

Morfogenesi cellulare ingegnerizzata e limiti etici

Oggi per la scienza è possibile           plasmare la materia organica                 e spingerla a ottenere qualunque cosa. Tutto ciò apre a una riflessione      importante: spetta allo scienziato porre dei limiti nella creazione            di organoidi, embrioidi e forse anche umanoidi? La materia organica            si dimostra essere plasmabile,          

ma questo “autorizza” lo scienziato      a modellarla davvero in qualunque   cosa egli voglia?

Studentessa di Chimica e Tecnologia Farmaceutiche dell’Università degli Studi di Perugia

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Nella rivista Le Scienze di luglio 2023 (n. 659) Philip Ball scrive “Ridisegnare la vita”, un articolo di bioingegneria e morfologia sintetica in cui ci si chiede “come e fino a che punto si possano alterare le forme e le strutture naturali della materia organica”. La morfologia sintetica nasce grazie alla biologia sintetica che, a sua volta, si basa sull’ingegneria genetica ovvero la possibilità di modificare il genoma cellulare per imprimere caratteristiche da noi desiderate.

 

A partire dalle cellule si potrebbero progettare tessuti, organi e anche interi organismi: è questa la frontiera della morfologia sintetica. Per realizzarlo è necessario fare un passo indietro e chiedersi da dove deriva la forma di un tessuto, di quali regole si avvale l’evoluzione per controllarla e cosa succede se tentiamo di aggirare queste regole. Nel 1912 il fisiologo tedesco Jacques Loeb in “The Mechanistic Conception of Life” scrisse che l’uomo poteva  agire  da  creatore  nella  natura  vivente.  

 

Questo  pensiero  rivoluzionario  rappresenta  solo l’inizio di un processo di evoluzione che è tutt’ora in atto; ad esempio attualmente è possibile far crescere in vitro le cellule grazie ad deguati terreni di coltura ricchi di nutrienti necessari allo sviluppo cellulare. In realtà i ricercatori si sono resi conto di come le cellule siano molto più intelligenti di quello che pensiamo:  non  rappresentano  solo  i  mattoni  del  nostro  organismo  ma  sono  entità  in  grado  di comunicare tra loro e adattarsi all’ambiente in cui si trovno asti pensare come dallo zigote si riesca a sviluppare un organismo intero.

 

Ma da dove provengono le informazioni necessarie affinché le cellule possano organizzarsi a formare un organismo?  

La  risposta  non  è  solo  nel  nostro  DNA,  perché  i  nostri  geni  non  contengono informazioni   su   come  debbano “comportarsi” le cellule,  la principale responsabile è la comunicazione cellulare. Le cellule  sono in  grado  di  ricevere  segnali  sulla  loro  superficie  e  tradurli  in  informazioni  vitali (attivare  o  inattivare geni  specifici).  Le  vie  di  comunicazione  cellulare  sono  varie:  esiste  una comunicazione di tipo chimico che attiva una vera e propria cascata di segnali nella cellula, oppure è possibile una stimolazione meccanica (le cellule possono cambiare forma quando sono a contatto con altre cellule) ed esiste anche un tipo di comunicazione elettrica mediata dagli ioni. La  comunicazione  elettrica  sembra  essere  cruciale per  elaborare  informazioni,  secondo  Michael Levin.  

 

È stato dimostrato come, cambiando il segnale bioelettrico, si possa modificare la morfogenesi, prevalendo sul segnale che deriva dai nostri geni. Un esempio molto interessante di morfogenesi è rappresentato dalle cellule che danno origine al feto: le cellule, inizialmente, formano una vera e propria massa e quelle più interne non ricevono l’adeguata ossigenazione,  per  ovviare  a  ciò  producono  sostanze  che  inducono  le  cellule  vicine  a differenziarsi in vasi sanguigni per permettere loro di sopravvivere. La nostra rete vascolare non è “scritta”  nel  nostro DNA,  si  è  sviluppata  grazie  a  questo  complesso  e  affascinante  sistema comunicativo.

 

Ci sono alcuni anfibi che sono in grado di farsi ricrescere arti amputati, come è possibile? Questo accade perché  le  cellule  che  ricrescono  riescono  a  differenziarsi  in  tutti  i  tessuti  necessari  per ricostruire l’arto e perché i tessuti sono poi in grado di organizzarsi. Ma non tutte le cellule sono in grado di agire in questo modo, solo le cellule staminali hanno questa capacità. Le cellule staminali possono essere  classificate in  base  alla  loro  potenza,  ovvero alla  capacità  di differenziarsi in tutti i tipi di cellule del nostro organismo. La cellula embrionale è pluripotente, ad esempio. Quando le cellule diventano mature, ovvero si sono specializzate, perdono questa capacità, o almeno così si credeva fino al 2006.

 

Shin’ya Yamanka (medico giapponese esperto di cellule staminali pluripotenti indotte) è riuscito a riportare delle  cellule  mature  e  differenziate  in  uno  stato  simile  a  quello  delle  cellule  staminali; questo dimostra come la nostra materia sia effettivamente plasmabile. Quando le cellule mature vengono riprogrammate a staminali possono differenziarsi in tipi cellulari diversi rispetto a quello di origine.  Questa scoperta  permette  lo  sviluppo  di  numerose  cure  nell’ambito  della  medicina rigenerativa  con  il  limite, però,  che  non  riescono  a  dare  origine ad organi completi, perché manchevoli di una rete vascolare che è indispensabile per ricevere i nutrienti adeguati.

 

Un altro esempio di plasticità e adattamento cellulare è rappresentato dagli embrioni chimera che contengono cellule derivanti da più di un organismo (capra-pecora). Questo sta a significare che, anche  se  normalmente  specie  diverse  non  riescono  a  riprodursi tra  loro,  le  cellule  riescono comunque a convivere nello stesso embrione.

 

Da tutto ciò si può evincere come sia possibile “dare forma” a un’entità biologica senza però avere un piano predefinito: si possono usare polimeri di forme ben precise, ad esempio a forma di vaso sanguigno, e inserire i vari tipi di cellule di nostro interesse, oppure si può indurre un pool di cellule staminali a differenziarsi man mano che queste si coordinano tra loro fino ad ottenere la struttura biologica da noi desiderata.

 

Ma  quale  è  l’obiettivo?  Ottenere  strutture  pluricellulari  simili  a  quelle  naturali,  per esempio  un tessuto semplificato, molto utile per studiare alcuni processi tissutali riscontrabili in vivo. Alcuni ricercatori hanno sviluppato degli “embrioidi” per poter studiare l’embriogenesi ma, ad oggi, non si è ben delineato fin dove potersi spingere con il loro sviluppo. Zernicka-Goetz (biologa dello sviluppo di origine polacca) ne ha creati alcuni da cui si sviluppano gli arti e gli organi. Ovviamente si pone  subito  un significativo  problema  etico  riguardo  alla  possibilità  di  impiantarli  in  un  utero animale,  poiché  non  è da escludere che una volta impiantato tale embroide possa adattarsi all’ambiente uterino e svilupparsi come un embrione vero e proprio.

 

Studiare  la  morfologia  sintetica  apre  le porte  anche  allo  sviluppo della  robotica. James  Sharpe  e Sabine Hauert hanno sviluppato sciami robotici cilindrici che comunicano con segnali infrarosso e si assemblano tra loro similmente a come fanno le cellule. Queste innovazioni scientifiche ci dimostrano come, partendo dalla materia organica, sia possibile plasmarla e spingerla a ottenere qualunque cosa, ma per fare ciò è necessario creare un rapporto sinergico  tra  materia  organica,  quindi  naturale,  e  tutto  ciò che  attualmente  consideriamo  come artificiale,  quindi  inanimato. Riuscire  ad  “unire” questi  due aspetti,  che attualmente  ci  appaiono come molto lontani, implica che ci sia un avvicinamento del naturale all’artificiale tale da poter “dare vita” alla materia inanimata.

 

Tutto ciò apre ad una riflessione importante riguardo il ruolo dell’essere umano come ricercatore: spetta allo scienziato porre dei limiti nella creazione di organoidi, embrioidi e forse anche umanoidi? La materia organica si dimostra essere plasmabile, ma questo “autorizza” lo scienziato a plasmarla davvero in qualunque cosa egli voglia?

 

Sviluppare esseri animati a partire da un pool cellulare implica poi  il  dover  decidere  come  impiegarli  e a  che  scopo;  inoltre  non  sono note  le  potenzialità  di  un organismo che in natura non esiste come tale. Potenzialità  e  plasmabilità  cellulare  potrebbero  essere  meccanismi  con  cui  la  natura  si  adatta all’ambiente e propaga le specie, con l’obiettivo di evitare l’estinzione, non una capacità sfruttabile a nostro uso e consumo. Sicuramente ingegnerizzare queste caratteristiche cellulari è fondamentale per lo studio di malattie e per la ricerca di nuove cure, ma chi può mettere un limite tra le giuste esigenze della ricerca e l’uso che si può fare degli esiti della stessa?

 

Questo tipo di procedure è portato avanti solo da una élite di scienziati di altissimo livello; studi di tale portata sono possibili solo grazie ad ingenti finanziamenti destinati a pochissimi centri di ricerca, le cui scoperte potrebbero avere delle conseguenze tali da condizionare, in positivo o in negativo, l’intera umanità. Sarebbe quindi necessario il controllo da parte dell’intera comunità per garantire l’uso corretto di queste ricerche e fare in modo che tutti possano usufruire dei benefici.

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