A prova di AI:
una sfida per aule più creative
L’uso dell’intelligenza artificiale
tra gli studenti – e nel nostro lavoro
di insegnanti – è ormai pervasivo.
Se vogliamo che il lavoro in aula
resti occasione di crescita reale
dobbiamo essere capaci di fare
di questa sfida un’occasione
per metterci in discussione.
A partire dalle verifiche, dai compiti,
da quello che chiediamo agli studenti.

Docente di Urbanistica
al Politecnico di Milano
L’INTELLIGENZA ARTIFICIALE NEL NOSTRO QUOTIDIANO
È ormai un dato di fatto: gli studenti usano AI per fare i compiti o per aiutarsi nello studio. Non è più un’eccezione, ricorrere all’intelligenza pronta per l’uso, è diventato uno strumento quotidiano. Alcuni studenti lo fanno in modo intelligente, strutturato, convincente, magari facendosi rispiegare qualcosa che in
classe non hanno capito o per riordinare gli appunti. Altri – è inevitabile – lo usano in modo più banale per eseguire esercizi più o meno complessi, rischiando con il tempo di diventare dipendenti da questa scorciatoia che riduce la fatica e massimizza il risultato. Almeno quello immediato.
Ho dovuto farci i conti anche nella mia aula universitaria, osservando che in un anno è cambiato tutto. Quando lo scorso anno ho consentito ai miei studenti di svolgere il solito compito di verifica in aula con il loro portatile, il risultato è stato disastroso. Per la prima volta ho fatto fatica a valutarli: come capire quali compiti fossero frutto di studio e quali di un aiuto digitale? Il sospetto rischiava di minare proprio quel clima di fiducia che avevo creato in classe.
La cosa mi ha così scossa e messo in crisi da costringermi a rivedere il senso delle mie verifiche in modo radicale. Mi sono chiesta come reagire. Come far sì che i compiti restino un’occasione di crescita, e non solo di utilizzo di un algoritmo?
Rimproveri e divieti ottengono poco: i ragazzi hanno accesso a dispositivi ovunque, e ogni divieto rischia di essere un boomerang.
UN NUOVO SPAZIO DI CREATIVITÀ
AI mi ha messo alle strette e la risposta l’ho trovata dentro di me. Da quanti anni mi rifugiavo, per abitudine, nello schema rassicurante del compito di verifica fatto di domande e risposte? Aperte o chiuse? Da quanto non sentivo più il bisogno di inventare forme nuove per far emergere ciò gli studenti avevano davvero imparato?
Quante abitudini si prendono insegnando senza accorgersi. Si smette di farsi domande e si ripete un cliscè. AI stava smantellando alcune certezze: mi ha messo di fronte ad una sfida nuova; se voglio averla vinta devo diventare più creativa, cambiare schema di gioco, prima di chiederlo ai miei studenti.
Così sono nati i miei primi “compiti resistenti all’IA”. Il mio intento non è quello di escogitare sistemi per smascherare i ragazzi, ma per aprire loro nuovi spazi di immaginazione. Per prima cosa, sono tornata ai compiti scritti a mano; cosa ovvia ma certamente utile. Ma ho integrato anche nuovi linguaggi: schemi logici, mappe concettuali, disegni, fumetti, colori, spazi per annotazioni personali.
Tutto ciò che costringe gli studenti a pescare dentro di sé, a costruire e non solo a copiare. Non è più possibile fare un compito standardizzato: ogni esercizio deve richiedere un approccio personale, originale, creativo. È sulla capacità di essere personali che si gioca la partita.
TROVARE SODDISFAZIONE NEL LAVORO IN AULA
Non si tratta solo di inventare per inventare. Ci sono motivi pedagogici concreti dietro questa scelta. La ricerca in didattica ci dice che apprendere è un processo attivo: scrivere a mano, disegnare schemi, costruire mappe concettuali rafforza la memoria, stimola il pensiero critico e la capacità di sintesi. L’esperienza diretta conferma che di fronte a una prova nuova, inaspettata e che sollecita vari tipi di intelligenza, gli studenti possono dare il meglio di sé. Un testo prodotto da ChatGPT può essere corretto e persino elegante, ma non “appartiene” profondamente allo studente: non lascia tracce di pensiero personale, non crea connessioni profonde tra idee. Avendo assegnato un compito con ampie parti di produzione personale (sia scritta che grafica) ho deciso di togliere lo stress legato al fattore tempo. Nell’ambito del ragionevole, gli studenti potevano contare sul tempo che volevano per compilare il lavoro.
“Dovete consegnare quando siete pienamente soddisfatti del vostro lavoro” ho esordito alla consegna dei compiti. Il clima si è disteso e gli studenti hanno lavorato con serietà e impegno. Sappiamo tutti ormai che gli studenti che usano ripetutamente strumenti di intelligenza artificiale per compiti scritti tendono a sviluppare meno abilità di rielaborazione critica. Per questo motivo, se i compiti richiedono creatività, originalità, uso di linguaggi multipli (testo, disegno, colori, simboli) l’IA diventa inservibile, e lo studente è costretto a pensare e costruire da sé il suo percorso. In altre parole, la tecnologia può essere gestita meglio, perché non è il nostro nemico: il nemico è l’omologazione del compito, il lavoro meccanico e ripetitivo, la prova tesa solo a verificare le competenze e non a suscitare interesse e partecipazione nello studente.
Ho compreso che, se voglio che il lavoro in aula resti occasione di crescita, devo reinventarlo continuamente. Grazie a questa sfida, ho ritrovato il gusto di rendere ogni compito un piccolo atto di invenzione, un laboratorio di creatività, un modo per fare pensare gli studenti e, allo stesso tempo, me stessa. La correzione dei compiti si è rivelata molto meno noiosa di quanto non sia di solito.
NULLA SOSTITUISCE L’ESPERIENZA DIRETTA
Ma il vero salto di qualità avviene fuori dall’aula. Quante sono le occasioni per praticare un’osservazione critica della realtà, mentre facciamo passeggiate urbane o esplorazioni nei parchi cittadini e nelle riserve naturali? Mentre ci concentriamo sul verde spontaneo negli interstizi della città o sul modo in cui sono disposte le panchine negli spazi pubblici? Piccoli esercizi di osservazione di spazi pubblici, flussi pedonali, consentono di sviluppare un’attitudine a guardare i dettagli.
In queste attività ho visto gli studenti fotografare dettagli architettonici, disegnare mappe, annotare proporzioni, costruire sezioni del paesaggio, rappresentare percorsi. Durante una passeggiata urbana, alcuni hanno iniziato a inventare microstorie sugli abitanti dei palazzi, trasformandole in fumetti che legavano architettura e immaginazione. In un parco naturale, altri hanno prodotto diari illustrati di piccoli ecosistemi urbani, creando mappe, testi, disegni e simboli che nessuna IA avrebbe potuto replicare.
I risultati sono stati sorprendenti: studenti che spesso cercano la soluzione pronta si sono messi a sperimentare linguaggi nuovi; altri hanno scoperto capacità grafiche o narrative inattese; molti hanno ritrovato il piacere del lavoro personale.
In parallelo, ho iniziato a invitare a lezione persone capaci di aiutarci a leggere l’altro lato dell’AI: non solo le sue promesse, ma anche le sue zone d’ombra, le implicazioni etiche, sociali, cognitive. Voci critiche e insieme curiose, capaci di mostrarci che l’intelligenza artificiale non è un totem da temere né un feticcio da idolatrare, ma uno strumento da comprendere, interrogare, governare. In fondo, quello che chiedo agli studenti è quello che sto imparando a chiedere anche a me stessa: continuare a osservare, interpretare, cambiare prospettiva.








