professionalità ATA
Per una scuola che funziona
"Congiunzione delle sfere" didattica e amministrativa
La funzione delle istituzioni scolastiche
come garanti del diritto all’istruzione
ha nel personale ATA la propria ossatura amministrativa.
Interrogarsi sulle modalità di relazione, di reclutamento, di formazione
e di permeabilità tra i sistemi
scuola e MIM aiuta a immaginare
strade diverse ed efficaci
per migliorare l’autonomia.

Professore di diritto scolastico nelle università
Statale Bicocca di Milano e Suor Orsola
Benincasa di Napoli
L’ammonizione, da Robert Browning a Mies van der Rohe a Csaba dalla Zorza è sempre la stessa: «Less is more». L’appesantimento, il perseguire l’inutile attraverso il complicato è sempre deleterio, a maggior ragione quando l’oggetto che ci si trova a gestire, già di suo, semplicissimo non è. Per questo motivo, vale la pena fissare dei paradigmi fondamentali attraverso cui, per quanto possibile,
navigare la realtà dell’istruzione.
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Ebbene, ricondotta ai suoi tratti essenziali, l’istituzione scolastica è un apparato della Repubblica che persegue il diritto costituzionale all’istruzione. La sua autonomia è funzionale a ottimizzare la propria attività per favorire il successo formativo di ciascun alunno, tenendo conto della comunità educante che la compone, del contesto di riferimento, dei paradigmi educativi, entro i limiti e con le modalità fissate dalle norme.
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È una definizione che può fungere da principio guida nel lavoro scolastico e costituire un primo setaccio che renda consapevoli della sostanza delle azioni che, quotidianamente, si accumulano nelle (e sulle) istituzioni scolastiche. Discernere ciò che è «funzionale» da ciò che non lo è aiuta ad essenzializzare progetti e processi e indica la retta via per impiegare al meglio l’unica risorsa davvero non rin-
novabile: il tempo.
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Sulle modalità specifiche di esercizio della funzione dell’istituzione scolastica, di come riesce, bene o male, a perseguire il suo particolare scopo, era il 1976 quando Karl Weick scrisse Educational organizations as loosely coupled systems, ovvero «Le organizzazioni scolastiche come sistemi a legame debole». Fu la pietra angolare non solo di una spettacolare carriera accademica, ma di un costrutto teorico fortunatissimo. Ma lo schema di Weick si incrina, nel momento in cui si prende atto che l’istituzione scolastica italiana vede convivere due piani. Nel primo, ogni istituto è un’organizzazione specializzata nei processi di istruzione ed educazione formale. In questa dimensione, il costrutto di Weick filma la danza perenne tra dirigenza scolastica, dimensione collegiale, libertà di insegnamento.
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Vi è però il secondo piano: ogni istituto è anche un ufficio amministrativo. E qui le cose cambiano, perché gli elementi che lo costituiscono hanno funzioni delineate e le loro azioni sono facilmente identificabili, e perché la catena gerarchica DS – DSGA – personale ATA è compiutamente disegnata. Che poi, quinci e quivi, le previsioni del legislatore e delle parti sociali siano inceppate dai granellini di sabbia della «legge dell’abitudine», è altra questione.
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Resta però un dato: la realtà «amministrativa» dell’istituzione scolastica non può essere considerata meramente ancillare o vissuta con fastidio. Distinguere i due piani non significa farli vivere da separati in casa. Il personale ATA rappresenta l’ossatura della funzione educativa sotto una molteplicità di aspetti, identificati dal CCNL. Vi è la gestione della (magari prosaica, ma indispensabile) quotidianità;
vi sono le procedure cui le istituzioni scolastiche deliberano di aderire (ieri erano i PON, oggi il PNRR, domani chissà); vi è la cura dei flussi con le altre organizzazioni e istituzioni; vi è il ruolo sussidiario che le istituzioni scolastiche ricoprono per l’amministrazione ministeriale (pensiamo alla valutazione dei titoli per le graduatorie provinciali per le supplenze). Vi sono i rapporti «col pubblico»: a partire dalla banale considerazione che il collaboratore scolastico alla reception è il biglietto da visita dell’istituto.
Vista sotto la lente della funzione dell’istituzione scolastica, la nozione di comunità educante, posta come architrave del contratto, acquisisce significato. Ma sotto l’orizzonte concettuale, vi è sempre la pratica attraverso la quale i concetti si fanno carne.
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Le responsabilità poste in capo al Dirigente scolastico e al DSGA sono destinate a incagliarsi se non vi è una condivisione degli obiettivi, dei «perché». La «congiunzione delle sfere» didattica e amministrativa è la cifra, a ben vedere, di una scuola che funziona.
La qualità del funzionamento amministrativo si correla alla qualità dell’ambiente relazionale, perché un ambiente relazionale positivo (anche nell’affrontare gli inevitabili conflitti) si realizza e si cementa proprio nella dimensione comunitaria, nella qualità del lavoro di ciascuno e nella consapevolezza dei rispettivi ruoli.
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Ci sono almeno tre ambiti che possono facilitare uno «scatto in avanti» nella realizzazione dell’autonomia. Occorre intanto chiedersi se, a partire dai compiti sempre più complessi degli assistenti amministrativi e tecnici, un sistema di reclutamento basato su graduatorie per titoli sia o meno idoneo a garantire la qualità del servizio e se ipotesi diverse siano più efficaci, sostenibili, purché gli strumenti siano configurati a partire dal profilo di cui si ha bisogno. Le Aziende sanitarie locali, ad esempio, utilizzano prove pratiche «chiuse» ben più sensate di un test a risposta multipla, che forse può dire qualcosa sulle capacità mnemoniche del candidato, ma poco sulla sua dimestichezza con gli atti e le procedure che si troverà ad affrontare.
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Fa eccezione il DSGA, oggi entrato nella categoria contrattuale delle Alte professionalità, attraverso un duplice canale le cui ricadute andrebbero tuttavia compiutamente esplorate. Chi scrive fu parte attiva della predisposizione del concorso 2018 (di fatto, il primo per la figura). Occorrerebbe riflettere sulle ricadute che provescritte diverse (allora si trattava della predisposizione di un atto, oggi di una prova a risposta chiusa) hanno sulla corrispondenza tra candidati selezionati e profilo.
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Secondo. Ribadire l’importanza della formazione è scontato. Meno, rivederne l’impostazione. È così difficile mettere al bando gli inefficaci «pistolotti formativi» per adottare modelli decisamente più produttivi, viene da dire, di «formazione-azione» in grado anche di retroagire sulle procedure e sugli strumenti stessi? E ancora: al netto della praticabilità o meno di forme di incentivo, perché non co-struire con il personale ATA dei «patti di sviluppo professionale» che possano correlare la formazione alle esigenze e alle potenzialità della persona?
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Terzo. Innovare le procedure, di per sé, non significa nulla. Il criterio, quando si introduce una diversa modalità di lavoro, è quello dell’efficacia. E se immaginassimo che a fare la valutazione di impatto sia il personale, e non le idee meravigliose di altri soggetti o del fornitore? Quante volte un amministrativo esperto coglie il «baco» nel sistema o la ridondanza di una procedura? Perché non fare tesoro di
queste segnalazioni?
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Infine, ma non infine. Ho avuto il privilegio di lavorare con alcune persone, in USR, che erano «in prestito» dalle istituzioni scolastiche. In determinati ambiti, l’esperienza in «prima linea» si rivela davvero fondamentale. Pur comprendendo la diversità dei comparti, è così difficile uscire dalla logica taylorista, così funesta per il comparto pubblico, e creare situazioni di interscambio e permeabilità tra
«prima linea» e «stato maggiore»?







