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Il conflitto israeliano-palestinese
e la crisi della diplomazia

Intervista di Erica Cassetta al prof. Arturo Marzano

Dopo l’analisi delle cause, dello svolgimento e dei caratteri del conflitto israeliano-palestinese, il nostro interlocutore conclude con la crisi attuale della diplomazia e il ritorno a logiche di potenza con il ricorso ai conflitti armati e la crisi degli organismi internazionali, a partire dalle Nazioni Unite.

Tutto questo comporta il rischio della normalizzazione dell’uso della guerra come strumento politico. Per cambiare rottaservirebbe una leadership globale capace di ripensare il sistema.

Professore, abbiamo avuto modo di confrontarci in un’intervista di due anni fa, quando parlammo insieme di sionismo, di pace di dialogo interreligioso come strumenti di risoluzione di conflitti. Quando pensavamo ancora che il dialogo avrebbe potuto essere uno strumento spendibile. La realtà, come spesso succede, si è incaricata di smascherare il nostro idealismo e per due anni la Palestina è stata teatro di guerra. Da storico del sionismo le chiedo di illustrarci quali sono le cause immediate e quali le ragioni profonde del conflitto.

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Più che di cause immediate, parlerei di cause di breve periodo. Ritengo infatti che la violenza degli ultimi due anni – l’attacco terroristico del 7 ottobre compiuto da Hamas con la partecipazione di altre organizzazioni armate palestinesi, e la devastante risposta israeliana, che si è tradotta in una pulizia etnica

e in un genocidio – sia da ricondurre al fallimento degli Accordi di Oslo, col- lassati nel 2000 con lo scoppio della Seconda Intifada, e alla conseguente affermazione, in Israele e tra i palestinesi, di quelle forze politiche – la destrasionista e Hamas – non disposte a un compromesso con l’altra parte.

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Dal 2007 in poi, la Striscia di Gaza è stata chiusa, con un controllo capillare da parte di Israele su ciò che entrava e usciva, merci e persone. Gaza è stata trasformata in una prigione a cielo aperto. Così, nel 2011, l’economista americana Sara Roy concludeva un suo volume dedicato alla presenza di Hamas a Gaza: «Se

ai palestinesi continuerà a essere negato ciò che pretendiamo per noi stessi – una vita normale, dignità, mezzi di sussistenza, protezione e una casa (in breve, libertà) – allora la violenza, la divisione e il declino si intensificheranno».

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Le ragioni profonde del conflitto vanno invece rintracciate nella competizione tra due nazionalismi: il sionismo e il nazionalismo arabo palestinese, nati a fine Ottocento e strutturatisi nei primi decenni del Novecento, ciascuno dei quali ambiva a creare un proprio Stato-nazione sullo stesso territorio, la Palestina. Ma c’è anche un altro aspetto: la lotta tra sionismo e nazionalismo arabo palestinese si è svolta all’interno di un contesto coloniale. Londra, durante il Mandato in Palestina, portò avanti politiche che sostenevano il progetto nazionale degli ebrei sionisti, ma non quello degli arabi palestinesi. La gestione britannica del Mandato favorì il movimento sionista, negando agli arabi strutture politiche equivalenti. Anche il sionismo, dal canto suo, mise in atto politiche e pratiche coloniali, volte a creare una società del tutto separata dalla popolazione araba palestinese indigena e, con il tempo, a sostituirsi a quest’ultima.

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La tregua voluta da Donald Trump e che le parti in causa, con il supporto di alcuni Stati medio orientali, sembrano aver accettato avrà a suo avviso uno sviluppo positivo verso accordi che porranno fine alla guerra? La soluzione di due popoli e due stati che sembrerebbe la soluzione più ragionevole si presenta praticabile, quando da entrambe le parti sembrano negarla?

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Il piano di pace di Trump, accolto dalla Risoluzione n. 2803 approvata il 17 novembre 2025, ha avuto un ruolo importante: porre fine ai bombardamenti incessanti sulla Striscia da parte di Israele e impedire la prosecuzione dell’invasione di terra verso la città di Gaza. Tuttavia, il “cessate il fuoco” – che ha permesso la liberazione di ostaggi israeliani in cambio di prigionieri palestinesi – non è stato affatto rispettato da Israele. Nel momento in cui rilascio questa intervista, più di 300 palestinesi sono stati uccisi dalle forze armate israeliane.

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La risoluzione presenta moltissimi problemi, a partire dal più grave: la subordinazione del diritto all’autodeterminazione dei palestinesi – sancito dal diritto internazionale – a una serie di riforme, le ennesime, dell’Autorità Palestinese. In generale, non si tratta di un piano di pace che affronta le cause profonde del conflitto, su tutte l’occupazione militare israeliana del Territorio palestinese (Gaza, Cisgiordania, inclusa Gerusalemme Est), che dura da quasi sessant’anni. La storia ci insegna che cessate il fuoco senza un processo politico si trasformano in pause tra una guerra e l’altra.

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In teoria, la soluzione “due popoli, due Stati” è la più ragionevole. Ma oggi è impossibile da realizzare. E lo è dagli anni Novanta, da quando – anche durante gli Accordi di Oslo – è proseguita incessantemente la colonizzazione israeliana con la creazione di insediamenti sempre più numerosi e più ampi, sottraendo sempre più terra ai palestinesi. Questo rende impossibile la creazione di uno Stato palestinese contiguo e viabile.

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Secondo una lettura giornalistica abbastanza superficiale, gli Accordi di Oslo avrebbero prospettato questa soluzione e solo l’omicidio di Rabin avrebbe posto fine a quella che sembrava prospettarsi come una pace duratura. Ci può parlare di tali accordi inserendoli in un quadro riassuntivo di quelli che a suo avviso sono i momenti più salienti del rapporto tra israeliani e palestinesi dal 1948 ad oggi?

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Gli Accordi di Oslo, firmati tra il 1993 e il 2000, avevano alcuni aspetti positivi, tra cui il riconoscimento reciproco tra Israele e l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina. Tuttavia, presentavano anche numerosi limiti. Oltre al fatto che non era previsto alcun blocco alla costruzione degli insediamenti, Oslo non contemplava la nascita di uno Stato palestinese. Il diritto all’autodeterminazione dei palestinesi non era dunque garantito.

Anche Yitzhak Rabin – che ebbe il coraggio di considerare le strategie militari del tutto inadeguate e controproducenti e di cercare una soluzione politica al conflitto – era contrario alla creazione di uno Stato palestinese e alla divisione di Gerusalemme in due, condizioni che per i palestinesi erano invece fondamentali.

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Questi accordi costituiscono senza dubbio un tornante della storia del conflitto, così come lo sono altri due momenti fondamentali: il 1948 e il 1967. Il 1948 rappresentò contemporaneamente la nascita dello Stato di Israele, cioè il compimento del sogno sionista di creare uno Stato nazionale che fosse per gli ebrei di tutto il mondo un rifugio dalle persecuzioni e dall’antisemitismo, e la Nakba [catastrofe], cioè la fuga/espulsione di circa 750.000 palestinesi dalle loro case, la distruzione di circa 500 villaggi e, più in generale, la fine della Palastina araba. Un evento, dunque, che ha avuto conseguenze diversissime per le due comunità, dando origine a narrazioni alternative e contrapposte.

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Anche il 1967 costituì uno spartiacque: la Guerra dei Sei Giorni non solo modificò la geografia politica della regione, ma introdusse un elemento strutturale che ancora oggi condiziona ogni tentativo di pace, ossia l’occupazione israeliana della Cisgiordania, inclusa Gerusalemme Est, e della Striscia di Gaza. Da un lato, i palestinesi, e in particolare l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, (riemersero come attori cruciali del conflitto. Dall’altro, in Israele cominciò ad affermarsi la tendenza del sionismo religioso, la cui presenza è cresciuta in modo significativo nella politica e nella società israeliana fino ai nostri giorni, dando vita a una posizione che considera il controllo su tutta la Palestina storica – definita da sionismo Eretz Israel [Terra di Israele] – necessario e imprescindibile, poiché vi si trovano i principali luoghi sacri per la tradizione ebraica. Dal 1967, l’occupazione militare israeliana è proseguita, accompagnata da una colonizzazione crescente che ha progressivamente reso, come dicevo poco fa, impossibile la creazione di un vero e proprio Stato palestinese. Ed è dunque l’occupazione l’elemento chiave che deve essere affrontato il prima possibile. Altrimenti, il rischio concreto è che non si esca da questa situazione di stallo e di violenza.

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Settori sempre più ampi dell’opinione pubblica, anche coloro che giustificavano il comportamento di Israele per motivi di sicurezza e sopravvivenza dello stato, data la sua collocazione geo politica, hanno cominciato ad utilizzare la categoria di genocidio per la guerra condotta da Netanyahu a Gaza. Ci può inquadrare questa categoria riferendola ai popoli o alle situazioni per cui è stata utilizzata?

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“Genocidio”, come sappiamo, è una categoria giuridica definita dalla Convenzione ONU del 1948. Indica atti compiuti con l’intento di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso. Non si tratta solo di uccisioni di massa, ma anche di misure che mirano a impedire la sopravvivenza di quel gruppo: privazione di risorse vitali, deportazioni, distruzione delle condizioni di vita. Storicamente, tale categoria è stata utilizzata in altre occasioni: il genocidio degli armeni durante la Prima guerra mondiale, quello dei tutsi in Ruanda nel 1994, quello in Bosnia contro i musulmani di Srebrenica nel 1995, e ovviamente la Shoah, quando sei milioni di ebrei europei vennero uccisi durante la Seconda guerra mondiale.

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Nel contesto di Gaza, numerosi giuristi e storici hanno impiegato tale categoria già dalla fine del 2023. Per quanto mi riguarda, dopo una riflessione difficile e dolorosa, ho deciso di parlare di genocidio anche alla luce di quanto affermato da storici israeliani come Amos Goldberg e Omer Bartov. Quest’ultimo, in un editoriale pubblicato su «The New York Times» nel luglio 2025, dal titolo Sono uno studioso del genocidio. Lo riconosco quando lo vedo, interrogandosi sul legame tra “pulizia etnica” e “genocidio”, scriveva: «Quando un gruppo etnico non ha un posto dove andare ed è costantemente sfollato da una cosiddetta zona sicura all’altra, bombardato e affamato senza sosta, la pulizia etnica può trasformarsi in genocidio». Ritengo che Bartov abbia colto il punto chiave per spiegare quanto si è verificato a Gaza negli ultimi due anni.

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La diplomazia sembra essere la grande sconfitta di questi anni, sia nel caso del conflitto israeliano-palestinese, sia anche nel caso della guerra in Ucraina, o in tanti altri conflitti nel mondo, penso ai tanti conflitti armati in Africa. La voce dei grandi organismi internazionali, a partire da quella dell’ONU, è sempre più flebile e inascoltata. La storia sembra essere tornata al periodo precedente la seconda guerra mondiale, senza la speranza delle utopie che ancora animavano il ‘900. Da storico della contemporaneità qual è il suo pensiero a proposito? Si possono intravvedere delle linee di tendenza?

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È una domanda cruciale, ma anche molto difficile. La diplomazia sembra oggi totalmente superata a vantaggio del ricorso alla guerra, perché il sistema internazionale nato dopo la fine della Seconda guerra mondiale – fondato sull’illegittimità dell’uso della forza, sull’ONU come garante della pace e della sicurezza internazionale e sulla tutela dei diritti umani – sta attraversando una crisi profonda. La riaffermazione dell’utilizzo della forza come strumento di regolazione delle controversie internazionali è molto pericolosa.

Non amo i paragoni con il passato, perché credo che siano fuorvianti: ogni epoca è diversa, e ritengo perciò che paragonare la situazione attuale agli anni Trenta sia storicamente poco corretto e politicamente poco utile. Credo che quanto sta accadendo oggi sintetizzi tre principali tendenze. La frammentazione dell’ordine

globale: dal bipolarismo della Guerra Fredda e dall’unipolarismo degli anni Novanta siamo entrati in un multipolarismo conflittuale. La crisi della diplomazia e il ritorno a logiche di potenza, con il ricorso ai conflitti armati. La crescente irrilevanza delle istituzioni internazionali, a partire dalle Nazioni Unite.

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Tutto questo comporta un rischio enorme: la normalizzazione dell’uso della guerra come strumento politico. Non credo che ciò sia inevitabile, ma per cambiare rotta servirebbe una leadership globale capace di ripensare il sistema; oggi, purtroppo, non mi sembra ci sia.

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Arturo Marzano, docente di Storia del Medio Oriente presso l'Università di Pisa

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