
• Paolo Acanfora
Sulla neutralità della storia
Sulla neutralità
della storia
L’articolo affronta il tema del rapporto
tra il passato e il tempo presente,
tra la conoscenza storica e l’uso
pubblico (e politico) che si fa di essa.
Lo studio e l’insegnamento della storia
sono aspetti decisivi della formazione
civica e umanistica e offrono
ai cittadini gli strumenti per orientarsi
nella complessità della realtà.

Professore Associato di Storia Contemporanea
presso Sapienza Università di Roma
Recentemente le cronache politiche hanno riproposto alla nostra attenzione il tema dell’insegnamento della storia, la sua validità, il suo significato e la sua funzione all’interno della comunità scolastica e, più generalmente, cittadina. Si tratta di una questione che non è, ovviamente, nuova. Per sua natura, la storia come disciplina è strettamente connessa al tempo presente. È il suo stesso statuto disciplinare a imporre un rapporto diretto con l’attualità. Senza voler entrare nel merito del dibattito sul metodo storico, basti a titolo esemplificativo ricordare il motto di Benedetto Croce secondo cui la storia è sempre storia contemporanea perché «è evidente che solo un interesse della vita presente ci può muovere ad indagare un fatto passato».
È una tesi facilmente verificabile: la storia delle donne, ad esempio, nasce nel momento in cui la questione femminile assume un rilievo notevole nell’agenda pubblica delle società occidentali. Da questo impulso si è partiti per arrivare a studiare, che so, la condizione della donna nel medioevo o nella Roma antica. Lo stesso si può dire del tema dell’ambiente o di quello delle minoranze.
Il rapporto tra presente e passato è naturalmente bidirezionale. Lo ha esplicitato in modo inequivocabile uno dei principali esponenti della storiografia moderna, March Bloch: «l’incomprensione del presente nasce inevitabilmente dall’ignoranza del passato. Ma non è forse meno vano affaticarsi nel comprendere il passato, se non si sa niente del presente».
La conoscenza storica non è questione di eruditismo né di tecnicismi, è qualcosa che ha a che fare con la nostra vita quotidiana, perché conoscere le linee direttive dei processi che hanno portato all’attuale configurazione delle nostre società, dei nostri sistemi nazionali ed internazionali (sotto il profilo economico, sociale, culturale, politico), consente di avere una bussola per orientarsi nella complessità della realtà. Questo significa, molto concretamente, avere cognizione del mondo in cui si vive, dei propri diritti (e quindi di come farli valere) e dei propri doveri.
Mi si permetta un poco di retorica (e di utopismo): tra questi diritti dovrebbe esserci quello ad avere una equa e meditata narrazione della nostra storia. Il rifiuto della mistificazione del passato dovrebbe essere da tutti condiviso come la condizione base della convivenza civile. Ovviamente, sarebbe un diritto non esigibile, perché implicherebbe un controllo – impossibile e molto pericoloso – sulla “verità” delle ricostruzioni storiche e delle conseguenti narrazioni. Un meccanismo che metterebbe in discussione i principi fondamentali dei sistemi democratici.
Ma ciò non toglie che il problema della mistificazione del passato è perennemente presente nelle nostre società e produce storture, negazionismi, falsificazioni palesi, alterazioni opportunistiche, condizionando la nostra percezione come cittadini, gruppi sociali, comunità. È un problema senza soluzione.
Nonostante questo, lo sforzo degli storici è di proporre interpretazioni del passato che – pur nell’ampio pluralismo delle sensibilità, dei metodi, delle categorie e dei giudizi – abbiano un fondamento riscontrabile nelle tracce che gli uomini hanno lasciato dietro di loro. Seguire quelle tracce, senza alterarle né piegarle ai nostri desideri e alla nostra visione del mondo, è il compito degli studiosi. Al tempo stesso, è un dovere di chiunque abbia un ruolo istituzionale di rispettare il percorso segnato (nel bene e nel male) da quelle tracce, così come gli sforzi di ricostruzione compiuti nei decenni. Non si tratta di contrapporre l’oggettività (che non esiste) del mestiere dello storico alla soggettività di chi della storia fa un uso partigiano. Si tratta di richiamare tutti, e in particolare chi ci governa e ci amministra, al rispetto della realtà passata e presente.
Quando una ministra della Repubblica afferma che generazioni di ragazzi e ragazze sono state mandate ad Auschwitz a fare delle gite scolastiche, sostanzialmente per educarle politicamente all’antifascismo – la qual cosa, sia detto per inciso, dovrebbe comunque essere condivisa da tutti coloro che vivono nella nostra
Repubblica e in particolare da coloro che, sulla base dei principi costituzionali, la dirigono – e non per combattere l’antisemitismo, fa un’operazione subdola di manipolazione della storia, nonché della pedagogia civica che la scuola è chiamata a fare come suo dovere inderogabile.
Lo svilimento del lavoro compiuto per decenni dai docenti delle scuole è accompagnato dalle recriminazioni sulle università che, a giudizio della ministra Roccella, non svolgono la loro funzione critica, divenendo, dunque, centri di diffusione dell’antisemitismo – lo dico da accademico che fa una battaglia dentro la propria istituzione contro il generico boicottaggio culturale e scientifico verso Israele (come verso qualsiasi altro Paese), perché convinto che la missione dell’università sia sempre la promozione del dialogo e della cooperazione.
Un attacco alle istituzioni scolastiche e universitarie del tutto scomposto – inappropriato, a dir poco, dal punto di vista politico e istituzionale – ma soprattutto, ed è quello che qui ci interessa, sferrato con le armi della memoria storica. In sostanza, l’obiettivo è politico, lo strumento per conseguirlo è la storia, ossia la rappresentazione del passato.
Non è questo il luogo per spiegare cosa sia l’antisemitismo, come questo sia stata la conseguenza del razzismo come fondamento essenziale dell’ideologia nazista, come il fascismo italiano abbia contribuito alla realizzazione della Shoah con l’introduzione delle leggi razziali del 1938. Che l’antisemitismo sia stato storicamente legato essenzialmente al fenomeno fascista è un dato di realtà incontrovertibile.
Che esso sia esclusivamente fascista è falso. L’antisemitismo nasce, com’è noto, ben prima del fascismo e ha attecchito anche in altre aree politiche. Ciò non toglie che Auschwitz, quale luogo-simbolo del genocidio, è un prodotto inequivocabilmente riconducibile ai fascismi, che ne portano la responsabilità politica, etica e
storica. Affermarlo non è un’impropria educazione all’antifascismo ma è esattamente il contrario: significa fare bene i conti con il nostro Paese, con la nostra storia, riconoscendo le nostre responsabilità.
È questo il vero punto della questione: l’insegnamento della storia che finalità ha nel nostro sistema educativo? Deve educare lo studente a essere un cittadino consapevole, pronto a “combattere la buona battaglia” per costruire la debating society (la società del dibattito), come affermava un grande storico quale George Mosse, o deve snocciolare solamente una serie di dati (luoghi, nomi, eventi) che poi ciascuno interpreterà a suo modo? Lo storico e il docente di storia devono proporre una lettura fondata e meditata dei fenomeni studiati, con tutte le implicazioni che tale lettura può comportare, o devono attenersi a una presunta neutralità?
Se, com’è evidente, a nulla serve la riduzione del passato a elenco di dati, né esiste alcuna neutrale oggettività di esso, allora il dovere dello storico e del docente di storia è di offrire agli studenti gli strumenti per acquisire un’autonoma e solida capacità critica che permetta loro, lo ribadisco, di comprendere i processi che hanno portato al mondo in cui viviamo e di orientarsi in esso.
L’uso politico della storia – ossia, piegare la rappresentazione del passato in modo funzionale alle proprie convinzioni politiche e culturali – è uno strumento continuamente utilizzato dalle classi dirigenti (di qualsiasi matrice politica), per legittimarsi e per delegittimare l’avversario politico. Smontarne la narrazione è possibile solo con una pedagogia mirata a insegnare a ragionare storicamente, a fare i conti (anche faticosi) con il metodo storico, utilizzando le fonti attendibili, in modo consapevole.
Non c’è altra strada per educare ad una cittadinanza attiva, critica, cosciente.







