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Il sapere 
per la costruzione del futuro

Noi che lavoriamo nella scuola dobbiamo ricordarci sempre che il futuro è possibile solo se impariamo a dare forma a una visione.    

Lo possiamo fare solo se sappiamo chi siamo. La visione del futuro acquisisce nella nostra mente contorni delineati, forme e colori,

se poggiamo i piedi saldamente

su un terreno sicuro.

E niente è più sicuro di ciò che sappiamo.

Più sappiamo, più solida è la nostra base.

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Docente di Lettere nella scuola secondaria di primo grado

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Se non l’unica, la scuola è la prima agenzia che lavora sul futuro dei giovani. Per questo motivo, per fare un buon lavoro, noi che lavoriamo a scuola dobbiamo chiederci prima di tutto cosa significhi la parola “futuro”. Etimologicamente il termine italiano deriva dal latino; per la precisione dal participio futuro del verbo sum, essere. È formato dalla radice del verbo essere “fu-” e dal suffisso “turus, tura, turum”, che indica ciò che è di là da venire.

 

Nell’ambito della grammatica italiana, il tempo futuro assume due sfumature, una semplice, ovvero la forma diretta, e una composta, che chiamiamo anteriore. Quest’ultima indica un’azione passata relativamente a un’altra azione futura. Due sole sfumature di futuro sono poche per la lingua di una civiltà che si vuole proiettare nel futuro. Lo dico perché in italiano il futuro è un tempo che pertiene solo al modo indicativo. Invece in latino, per esempio, il tempo futuro è presente anche nell’infinito e nel participio. Più percezioni di futuro nella coniugazione verbale consentono a una lingua, e dunque a una civiltà, di sviscerare l’avvenire con più cura.

 

La parola “futuro”, per inciso, è in realtà un participio. E che cos’è un participio? È una forma nominale del verbo che conserva la categoria del tempo e del numero, e che varia nel genere. Significa: ciò che sarò, che sarà, che saremo. Futuro è una parola che pronunciamo, ma che indica qualcosa che è ancora di là da venire. Di fatto, dunque, è una parola magica e come tutte le magie è qualcosa di potente, che dobbiamo saper gestire, se vogliamo farne qualcosa di grande. Perciò è bene che ci interroghiamo su cosa significa per noi oggi. Per quanto lo si dia per scontato, il futuro non è mai apparso tanto incerto e inafferrabile come oggi.

 

In particolare, nella mente di molti giovani d’oggi il concetto di futuro non esiste proprio, spazzato via dall’uso sconsiderato della tecnologia, dalla precarietà della società di oggi, dalle poche certezze e dall’infinità di variabili che gli eventi prendono di ora in ora. Il futuro assume così uno sviluppo caotico e incontrollabile: ecco perché viene associato dai giovani a stati d’animo come l’ansia e la paura. Il problema è che non c’è più tempo né spazio per riflettere. Ne è prova il fatto che la lettura, l’attività propedeutica alla riflessione per eccellenza, oggi rientra fra le attività meno attraenti. Questo perché la lettura impone un sacrificio di tempo e oggi nessuno ha più tempo.

 

Ma la lettura ci costringe a fare i conti con noi stessi nel maestoso silenzio delle pagine di un libro aperto. In un mondo dove nessuno è più padrone del proprio tempo, la lettura costituisce l’atto più rivoluzionario che si possa insegnare ai giovani per riappropriarsi del futuro. E dunque a scuola ben venga l’innovazione, ben venga la tecnologia, ma non dimentichiamoci mai quanto è importante insegnare anzitutto a leggere e a scrivere. Le ultime prove Invalsi testimoniano la perdita costante di competenze nella lettura e nella comprensione dei testi negli studenti italiani. Questo deve farci riflettere. Oppure la scuola cessi di esistere.

 

La lettura è un’attività che ci impone di fare i conti con noi stessi. E fare i conti con noi stessi è fondamentale nella nostra ricerca della felicità. Perché parlo di felicità adesso? Perché la felicità è strettamente legata al futuro. Non a caso, la civiltà occidentale odierna, che ha dimenticato il significato della parola futuro, cresce individui soli e frustrati. La felicità non è di casa soprattutto tra i giovani, che sono sempre più soli, sempre più tristi o sempre più violenti.

 

La catena ininterrotta di violenze e di femminicidi che si susseguono nelle cronache purtroppo lo testimonia. Il problema è uno: se non c’è una progettualità di futuro, non può esserci una prospettiva di felicità. Paradossalmente, le civiltà antiche avevano molto più a cuore il futuro di noi moderni. E il futuro ha un cuore antico: lo si può progettare soltanto comprendendo e studiando il passato, perché il passato ci aiuta a capire il presente e ci pone le basi per dare un indirizzo, una rotta al futuro. Il futuro, certo, non è mai scontato. Ma non è mai una “fatalità cronologica”, come ho sentito dire una volta al grande sociologo Franco Ferrarotti. Nell’aggettivo “antico” la radice è formata da “ante”, avanti in latino. Dunque, nella parola “antico” c’è la radice di ciò che sta per venire. Per i latini il futuro è un ponte che poggia i suoi pilastri nel passato.

 

Futuro non è caotica espansione in avanti, ma progettazione a misura d’uomo. Fondamentalmente per gli antichi il futuro era dotato di tre anime: era contemporaneamente fatalismo, autodeterminazione e caos ingovernabile. In effetti, dal punto di vista emotivo, il futuro non è determinato né determinabile. Per gli antichi Greci il futuro era governato dal Fato, una forza a cui non potevano opporsi nemmeno gli dei. Sin dalla nascita, Achille sa che morirà giovane. In questo senso, futuro è inesorabilità.

 

Filosoficamente, invece, il futuro è determinabile. Homo faber fortunae suae. Nell’Odissea, prima di tornare a Itaca, Odisseo scende nell’Ade per interrogare l’indovino Tiresia anzitutto per sapere cosa sta succedendo nella sua patria in sua assenza. Odisseo, in sostanza, non è uno sprovveduto: non torna a Itaca senza conoscere per filo e per segno chi è ancora suo alleato e chi invece trama alle sue spalle. Sbarcato a Itaca, si muove in incognito e fa bene, altrimenti i Proci lo avrebbero ucciso. Odisseo, dunque, pianifica il suo ritorno. Pianifica, in sostanza, il suo futuro.

 

Futuro, quindi, è anche progettualità. Infine, nell’Eneide di Virgilio anche Enea discende agli Inferi e lì viene a conoscenza della gloria futura di cui godranno i discendenti di suo figlio Ascanio/Iulo per volere degli dei e del Fato. Ma Enea, nella sua fuga da Troia assaltata dagli Achei, è anche un simbolo: porta sulle spalle l’anziano padre Anchise, che rappresenta il passato; ha inoltre con sé i Penati, le divinità protettrici del focolare domestico e simboli della patria, ovvero le tradizioni. E tiene per mano suo figlio Ascanio, il futuro. Enea porta in salvo dalla distruzione se stesso, ma sa che per lui non ci sarà nessuna salvezza senza Anchise, i Penati e Ascanio: il suo passato, la sua cultura e il futuro, ancora fragile e indifeso, eppure vivo. Futuro, in sostanza, per gli antichi è anche consapevolezza di sé.

 

In definitiva, noi che lavoriamo nella scuola dobbiamo ricordarci sempre, e ricordarlo anche ai nostri studenti, che il futuro è possibile solo se impariamo a dare forma a una visione. Lo possiamo fare solo se sappiamo chi siamo; se siamo consapevoli, cioè di dove veniamo. La visione del futuro acquisisce nella nostra mente contorni delineati, forme e colori, se poggiamo i piedi saldamente su un terreno sicuro. E niente è più sicuro di ciò che sappiamo. Più sappiamo, più solida è la nostra base. Sognare un futuro felice è lecito, ma un futuro felice non è mai scontato. In conclusione, più la nostra visione di futuro è condivisa e condivisibile, più sarà possibile e realizzabile. Perché ognuno di noi farà ben volentieri la sua parte.

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