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L'educazione
non è un'APP

Occorre porre al centro del dibattito l’urgenza, culturale e politica, dell’educare insegnanti         ed educatori a percepirsi non come tecnici dell’educazione ma come “esperti tanto di metodi e tecniche quanto di filosofia              dell’educazione e della conoscenza”.  

È tempo che si riconoscano nell’essere intellettuali in azione,

esperti di saperi-in-relazione.

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Professoressa associata di Pedagogia Generale e Sociale ed Educazione degli Adulti presso la Scuola di Medicina dell’Università di Bari Aldo Moro

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1. TRA INTELLIGENZA UMANA ED INTELLIGENZA ARTIFICIALE: LA “DEMENZA DIGITALE”

“Prof.ssa, pensare mi stanca” (Scardicchio, 2023)

L’evoluzione digitale ha generato non solo il potenziamento ma anche la perdita di competenze: il sovraccarico di informazioni generato dall’iperconnessione, insieme alla abitudine a ricorrere ad app come dispositivi sostitutivi non solo di azioni ma anche di parole (suggerite dai risponditori automatici) sono strettamente correlati all’aumento del cosiddetto “analfabetismo di ritorno” correlabile alla demenza digitale (Spitzer, 2012).

 

Già da alcuni anni la ricerca interdisciplinare si interroga a proposito dell’“analfabetismo funzionale” (Lastrucci, et al., 2021; Secci, 2021) relativo alla crescente difficoltà, pur in scenari con elevati gradi di scolarizzazione, di esprimere forme di ragionamento complesse, caratterizzate da capacità d’esame di realtà e di argomentazione critica. Ad esso si correlano la diffusione planetaria dell’effetto Dunning Kruger (Dunning, 2011) – che descrive la spavalderia con cui la propria opinione, anche quando non basata su dati scientifici o provenienti da fonti attendibili, viene considerata come verità universale – e gli studi connessi all’aumento esponenziale dei bias – errori sistematici – nel ragionamento individuale e di massa (Lee et al., 2013): si moltiplica una modalità di pensiero caratterizzata da polarizzazioni che, nel leggere gli eventi secondo logica bellica, giunge a inscalfibili conclusioni, parcellizzate e semplificanti perché pensate con la velocità con cui si scorre una o più notizie sullo schermo, spesso leggendone solo il titolo (Han, 2023; Nichols, 2018; Robert, 2019) o contemporaneamente si seguono più app sul proprio devices.

 

Il tema è nuovo eppure antico: già Platone aveva descritto l’idolatria tecnicista (incarnata in Theuth, il “tecnico” esperto nell’invenzione e applicazione della tecnica eppur totalmente incapace di valutarne gli effetti) come caratterizzata da un tipo preciso di “pensatori”: i doxosophoi: sapienti solo nel conoscere e dire la propria opinione. Per tali evidenze, di carattere sia socioantropologico che psichico, l’Oxford Dictionary è giunto a coniare l’espressione “Post Verità” per descrivere il tempo che stiamo vivendo(1), configurandola come l’“inedita tendenza dei cittadini a non credere a niente e anche, simmetricamente, a credere a qualsiasi cosa” (Mantellini, 2018, 35).

 

Dobbiamo allora riconoscere che le evidenze del cosiddetto “cervello aumentato” coesistono con quelle proprie dell’“uomo diminuito” (Benasayag, 2022) ovvero della “distracted mind” (Gazzaley, Rosen, 2016; Iotti, 2020) che, oltre a rarefare capacità di attenzione e di memoria, si caratterizza per la perdita di pensiero critico (Han, 2022; 2023) al cospetto non solo di fake news ma anche di qualsivoglia stimolo che viene recepito senza elaborazione, ovvero in modalità di fast thinking: veloce, polarizzata, acritica (Kahneman, 2011).

 

2. PENSIERO, LIBERTÀ, RELAZIONE

Contestualmente a quanto si rileva nello studio delle dinamiche social, i giovani che arrivano alla formazione accademica frequentemente mostrano di preferire compiti esecutivi - che richiedono “low thinking skills” – perché disorientati da compiti che richiedono “high thinking skills” (Striano, 2000): essi stessi dichiarano di preferire lo studio mnemonico ed i test a risposta chiusa piuttosto che un esame in cui argomentare e discutere criticamente i contenuti appresi (Formenti, 2017; Scardicchio 2023).

 

La ricerca internazionale in tema di riduzione del QI collettivo – perdita di parole/parola correlata alla perdita di capacità metacognitive – mostra il condizionamento esercitato dai modi di conoscenza on line: le relazioni sempre più simbiotiche con i devices sono correlate a regressioni di competenze sia di ordine emotivo e relazionale sia di ordine cognitivo, con la perdita, anziché il potenziamento, di specifiche funzioni cognitive – attenzione, curiosità, concentrazione, memoria, capacità di comprensione di un testo complesso – (cfr. Carr, 2010; Spitzer, 2012; Besnier, 2013; Le Breton, 2016; Immordino-Yang, 2017).

 

Per tali ragioni, questa riflessione intende proporre la centralità dell’educazione al pensiero - in un discorso scientifico relativo al nesso tra promozione culturale ed emancipazione umana in un tempo nel quale “i giovani (…) non solo sono immersi nelle app, ma sono giunti a vedere il mondo come un insieme di app e le loro stesse vite come una serie ordinata di app – o forse, in molti casi, come un’unica app che funziona dalla culla alla tomba” (Gardner, 2014, 18-19).

 

Educare a pensare potrebbe apparire questione non necessaria o, a taluni, persino propagandistica, ma non è all’“oggetto” di pensiero che fa riferimento l’urgenza educativa relativa alla perdita cognitiva, emotiva, comportamentale – e insieme etica e democratica – che caratterizza la riduzione della conoscenza a informazione. Non un oggetto, non un contenuto, bensì il processo del pensare implica la capacità umana di interrogarsi, interrogare, scomporre, ricomporre, non soltanto replicare.

 

Si tratta di un tema di studio radicato nella letteratura epistemologica e pedagogica italiana e che risulta particolarmente urgente in un tempo nel quale i discorsi barbarici in rete rivelano disabitudine all’ interrogazione, al dubbio riguardo a sé e un analfabetismo certamente lessicale e grammaticale ma, ancor più potentemente, critico-riflessivo: gli io al cospetto della tastiera inoltrano leggendo solo titoli, azzannano per spinta come si confà a un mattoncino Lego in fila nel gioco del domino, senza sperimentare processi di pensiero in grado di sostare e pensare prima di agire, dire, scrivere.

 

La questione è al contempo cognitiva ed etica, sapienziale e politica: occorre di fatto riconoscere che se sapere equivale a semplicemente fruire e restituire acriticamente, evidentemente Google risulta altresì incomparabile come fornitore e la sfida col motore di ricerca e con l’Intelligenza Artificiale è persa in partenza se si misura la conoscenza in quantità di informazione erogabile. è per questo che la domanda pungolo di questa interrogazione riguarda innanzitutto la questione et scientifica et filosofico-politica per cui la formazione, irriducibile a tutorial e podcast o pacchetti che confezionano conoscenze come caramelle e titoli di studio come raccolta punti al supermercato, riconosca l’indissolubilità del nesso propriamente educativo tra pensiero e parola, libertà e relazione.

 

3. CONOSCENZA, COMPLESSITÀ, RICERCA

Proprio la “concorrenza” dei saperi già pronti (accomodati ed accomodanti) può focalizzare l’essenza della relazione educativa nella condivisione di senso e di significato (Riva, 2004; Contini, et al., 2006), in una logica mutualmente trasformativa nella quale docente e allievo sono entrambi nella posizione del ricercatore: prospettiva – costruttivista, complessa, sistemica – per la quale ogni disciplina non si configura come mero catalogo/contenitore di informazioni/contenuti – da valutare mediante verifica delle capacità di duplicazione – ma come luogo di esplorazione che muove ipotesi, verifiche e riformulazioni (cfr. Morin, 2001; Callari Galli et al., 2003; Manghi, 2004; De Mennato, D’Agnese, 2004; D’Agnese, 2007).

 

Promuovere la riflessività come antidoto non tanto al dilagare del ricorso alla Intelligenza Artificiale quanto al più pericoloso ritrarsi della Intelligenza Umana, impone la domanda di ricerca propriamente pedagogica: chi educa gli educatori, non solo gli studenti, ad una testa ben fatta, ovvero a sviluppare competenze epistemologiche? (Morin 2000; 2001; 2015) Ovvero: a essere in grado di “pensare i propri presupposti” (Mezirow, 2003), sviluppare “pensiero sull’esperienza” e “pensiero sui pensieri” (Schön, 1988; Fook, Gardner, 2007; Mortari, 2013), capacitandosi alla “critical reflection” (Brookfiled, 1995) e a sperimentare apprendimento non solo accumulativo ma trasformativo (Mezirow, Taylor, 2009; Taylor, Cranton, 2012; Formenti, 2017)?

 

Se infatti è cruciale considerare le indicazioni del Parlamento Europeo (2006) in merito alla necessità dell’“imparare a imparare” per studentesse e studenti di ogni grado, è altrettanto fondamentale con uguale cura studiare e promuovere processi formativi nei quali le stesse posture siano coltivate nei docenti, di altrettanti ordini e gradi, affinché essi stessi non si considerino applicatori, funzionari addetti al trasferimento di saperi/contenuti, ma si riapproprino della loro identità complessa che li contraddistingue come intellettuali in azione, esperti di saperi-in-relazione.

 

In un passaggio solo: si tratta di porre al centro l’urgenza, culturale e politica, dell’educare insegnanti ed educatori al percepirsi non tecnici dell’educazione (come, per esempio, nella spiacevole nomenclatura per cui in Italia le Scuole di Medicina formano i “tecnici della riabilitazione psichiatrica”) ma esperti tanto di metodi e tecniche quanto di filosofia dell’educazione e della conoscenza. È qui l’identità vocazionale della Scuola e dell’Università: non la fornitura di saperi ma la promozione della postura di ricerca, scientifica come etica.

 

È naturale che nelle maglie della prima forma possiamo certamente essere sostituiti da intelligenze artificiali: una app sostituisce egregiamente un docente, se il suo lavoro si esaurisce nella trasmissione di informazioni in setting, virtuali o reali, dove i contenuti sono oggetti immobili e non mobilitanti. Un docente che legge slide e testi, in aula come in una lezione videoregistrata, limitandosi a dire/dare saperi pacchettizzati, resta senza retroazione alcuna, senza scambio contestuale e ristrutturante l’ordine del discorso (Foucault, 1972), anche laddove il sistema più evoluto preveda che lo studente “interagisca” con commenti o domande. La comodità di videolezioni prêt-à-porter si paga col prezzo di nutrire il monologo solipsistico dell’uomo/macchina nella sopraggiunta impossibilità di dirsi/darsi nella sua forma complessa: l’apertura ai feedback, la co-costruzione del sapere, la circolarità della conoscenza che si radica nel perturbante proprio di ogni relazione (irriducibile alla semplificazione trasmissione→ricezione).

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

È possibile leggere una versione estesa del saggio e consultarne la bibliografia, scaricando gratuitamente il volume nel quale è pubblicato, al link:

https://www.siped.it/wp-content/uploads/2024/05/2024-05-13-Siped-Convegno-Nazionale-Firenze-Atti-Junior-Conference-V1.pdf

(1) https://en.oxforddictionaries.com/word-of-the-year/word-of-the-year-2016

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