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editoriale

Tra Prometeo 
e Pandora
la sfida
dell'intelligenza

Le tecnologie “intelligenti” suscitano talvolta nel personale della scuola

il timore di essere “sostituiti”

dalle macchine “pensanti”.

La sfida di servirsi degli algoritmi senza esserne sopraffatti sarà vinta probabilmente solo se affronteremo

il cambiamento, prevenendo così la minaccia di diventarne succubi.

Segretaria Generale

CISL Scuola 

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La scuola da sempre e per sua natura agisce come istituzione deputata alla cura dell’intelligenza. Ciò non esaurisce il suo compito, ma indubbiamente ne costituisce una porzione rilevantissima. Impossibile dunque sottrarsi alla domanda sull’impatto che può avere, per la scuola, lo sviluppo di forme di intelligenza artificiale che, con i ritmi sempre più accelerati impressi da qualche tempo all’innovazione dei sistemi informatici e delle connesse tecnologie, hanno fatto irruzione sulla scena arrivando in brevissimo tempo a dominarla. Esiste una soglia oltre la quale l’intelligenza umana può perdere il suo primato, ovvero la capacità di restare comunque in posizione dominante rispetto alla potenza degli algoritmi, alla mole sterminata di informazioni che un sistema è in grado di immagazzinare, alla rapidità con cui può selezionarle, recuperarle e gestirle attraverso infinite combinazioni, sviluppando di fatto una dimensione “creativa” che si pensava tipica ed esclusiva dell’essere umano?


Lasciando ad altri più preparati e competenti la riflessione sulle tante possibili implicazioni, comprese quelle di natura etica e politica, che lo sviluppo dell’intelligenza artificiale comporta, vorrei soffermarmi su alcune che penso possano riguardarci in modo più diretto come gente di scuola. Proverò a farlo non in astratto, ma attingendo anche dalla memoria di quanto vissuto di recente, durante una pandemia che ci ha costretti per mesi a svolgere la nostra attività in un modo che percepivamo come “innaturale”, privi delle relazioni dirette che si vivono in presenza, sostituite dalla mediazione obbligata attraverso strumenti, linguaggi e tecnologie per cui era evidente e diffusa una scarsa dimestichezza.


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Anche allora, al netto del disorientamento indotto dalla situazione inedita che stavamo vivendo e del connesso, angoscioso, carico di interrogativi sui rischi che si stavano correndo a livello planetario, una delle preoccupazioni più ricorrenti era che l’impedimento a intrattenere le consuete relazioni dirette e in presenza diventasse l’anticamera di una scuola in cui, attraverso l’uso di software e media sempre più sofisticati, la figura del docente fosse ridimensionata, sia in termini qualitativi che quantitativi. Diventando, insomma, una figura in qualche modo obsoleta, superata in termini di capacità e prestazioni da macchine in grado di elaborare dati, veicolare informazioni, addirittura dialogare in relazione reciproca con gli utenti.


Come spesso accade di fronte a novità da cui si teme di essere sopraffatti, la preoccupazione determinò in molti casi atteggiamenti di difesa e di rifiuto, laddove sarebbe stato necessario attivarsi per recuperare ritardi e colmare lacune, facendo delle nuove tecnologie non più dei nemici da temere e contrastare, ma al contrario nuovi strumenti di cui avvalersi, per dare più efficacia alla didattica. Mi sento di dire che, dopo un iniziale periodo di sbandamento, questo fu ciò che avvenne nella stragrande maggioranza dei casi nella scuola italiana. E siccome alle nuove tecnologie si legano anche innovazioni di linguaggio, la cui diffusione è particolarmente estesa fra le giovani generazioni, prendemmo coscienza di quanto il non conoscerne e possederne adeguatamente la grammatica significasse veder precluse, o fortemente limitate, le possibilità di dialogo che sono assolutamente imprescindibili per chi esercita un ruolo educativo e formativo.


Mi sto limitando, in queste note, semplicemente ad accennare a temi su cui si svolse allora un dibattito intenso, a volte acceso e sempre di grande interesse, al quale offrimmo ospitalità sulle pagine della nostra rivista, aprendone anche una, nel nostro sito (La scuola che non chiude), appositamente dedicata alla riflessione su ciò che comportava fare scuola a distanza, dando spazio alla presentazione di buone pratiche raccolte nel contesto di una scuola intenta nell’impegno di “continuare a svolgere la sua funzione preziosa anche se le sue porte – ma solo quelle! – sono costrette a rimanere chiuse”.


Non furono pochi, né di poco conto, i risvolti anche sindacali che la stagione del lockdown ci obbligò ad affrontare. Anche in questo caso, con atteggiamenti che oscillavano tra l’assecondare paure e resistenze al nuovo (dove il titolo autoassegnato di difensori della “vera scuola” tentava di nobilitare ostruzionismi di vario genere) e l’impegnarsi nella sfida necessaria per trasformare, come si suol dire, le difficoltà in opportunità. Come CISL Scuola ci ponemmo su questo secondo versante, senza alcun tentennamento, contribuendo fra l’altro a definire le integrazioni necessarie sul piano contrattuale, per gestire un’organizzazione del lavoro imprevedibile al momento (era stato negoziato il CCNL allora vigente). Credo anche di poter affermare che l’attenzione riservata nel nuovo contratto ai temi della formazione e dell’aggiornamento del personale scolastico si debba in parte anche a una maggiore consapevolezza della difficoltà che comporta tenere il passo con la crescente rapidità dei processi di innovazione: l’esperienza del lockdown ci ha resi tutti, in questo senso, ancor più consapevoli.


Torno dunque al tema che caratterizza questo numero della rivista, con contributi di notevole interesse: l’intelligenza, in tutte le sue declinazioni, fra cui oggi si impone come dominante quello delle forme di intelligenza artificiale. La paura di essere inadeguati e “sorpassati” dalle tecnologie, cui ho già accennato, indicandolo come sentimento diffuso nei mesi della didattica a distanza, nel caso dell’intelligenza artificiale si ripropone in termini forse ancor più marcati: perché il timore non è più soltanto quello di non riuscire a tenere il passo con la potenza delle macchine pensanti, il timore è di esserne “sostituiti”. Vale in modo particolare per la scuola, ma è un dilemma che si pone in termini più generali e ruota attorno all’interrogativo sulla capacità, per l’uomo, di rimanere sempre e comunque in posizione dominante rispetto alla macchina, o all’algoritmo. Di servirsene, con gli enormi vantaggi che ne possono derivare sfruttandone una capacità di calcolo e di elaborazione finora impensabile: ma evitando di esserne sopraffatto, come accadrebbe se un sistema artificiale espropriasse la nostra facoltà di decidere. Quanto il dilemma possa essere angosciante lo si comprende bene applicandolo ai rapporti di forza tra gli Stati, e alle connesse implicazioni di tipo militare.


Siamo insomma, mi verrebbe da dire, tra Prometeo e Pandora, figure mitologiche ben note, che simboleggiano da un lato il coraggio di affrontare un elemento ostile e trasformarlo in fonte di progresso per l’umanità, dall’altro la curiosità imprudente e disastrosa che finisce per liberare tutti i mali del mondo. A una mitologia più recente appartiene la figura di Ned Ludd, cui si attribuisce la distruzione di un telaio meccanico, nell’Inghilterra di fine Settecento, per contrastare gli effetti sconvolgenti prodotti dalla rivoluzione industriale sulle condizioni di vita dei lavoratori salariati.


La storia ha dimostrato come il progresso tecnologico, opportunamente governato anche attraverso un sistema efficace di relazioni industriali in contesti approdati, almeno in Europa, a forme robuste di democrazia politica, abbia invece migliorato e di molto le condizioni di lavoro, relegando nella memoria lontana, o rendendole assolutamente marginali, modalità di impiego della manodopera tratteggiate in modo magistrale da Charlie Chaplin in un film capolavoro, “Tempi moderni”.


Non si tratta di sottovalutare i rischi, o di sopravvalutare le proprie forze: credo che il cambiamento, in ogni ambito della nostra esistenza individuale e collettiva, lo si può governare solo se lo si affronta. Altrimenti si finisce per subirlo. Credo sia questo, in definitiva, l’atteggiamento “intelligente” che ci è richiesto, in ogni sfida, per renderla vincente. Anche quando l’oggetto della sfida è l’intelligenza stessa.

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