top of page

Aver cura delle parole
per aver cura delle persone

Le parole sono importanti: suggeriscono futuri possibili, spingono verso azioni di un tipo o      di un altro. Occorre quindi educare alla parola, educare a comprendere sempre più prontamente che cosa accogliere in se stessi

e dall’altro educare a vigilare sulle parole che  si offrono agli altri, specie a chi ci è affidato nella stagione della crescita.

grandi.jpg

Professore Ordinario di Filosofia Morale

Università degli Studi di Trieste

grandi.jpg

«Come parlaaa? Come parlaaaaa? Le parole sono importanti, come parlaaaa?». Difficile rendere nella scrittura i pochi istanti in cui Nanni Moretti, in Palombella rossa, condensa nel grido di Michele Apicella il rifiuto di un linguaggio sciatto, in cui le parole usate tolgono densità agli argomenti di cui si tratta. È una situazione per noi oggi provocatoria e paradossale, perché in fondo suggerisce che siano le persone a dover essere in qualche modo all’altezza delle parole e non viceversa, come spesso immaginiamo, mossi dalla cura per la comprensibilità, per l’inclusione.

 

Non parliamo naturalmente delle parole ostili, ma delle parole difficili, di quelle semplicemente più rare, meno utilizzate nei colloqui della vita ordinaria, di quelle che solo perché inconsuete rischiano di diventare presto desuete, finendo per impoverire il lessico, il parlare e, in fondo, il pensare. Eppure, la parola inconsueta, quella che possiamo comprendere se solo ci tratteniamo con lei per qualche istante in più, quella che chiede di fermarsi per essere decifrata, quasi alle volte stanata da una memoria che ne conserva traccia pur non utilizzandola, ecco, quella parola – quelle parole, estensivamente quei discorsi – sono davvero importanti.

 

La tradizione ebraico-cristiana ha sviluppato lungo la storia un vero e proprio “culto” della parola – la coltura, la coltivazione, la cultura, il culto sono tutte parole semanticamente collegate –, attorno a due intuizioni centrali: Dio stesso crea dicendo, attraverso la parola, e in Gesù Cristo questa parola creatrice diventa carne, Parola viva che abita in mezzo agli uomini. Anche per via di questi riferimenti essenziali, la tradizione di pensiero cristiana, in particolare del primo millennio, ha sviluppato una sensibilità molto raffinata per i percorsi interiori delle partole: trasferendo in ambito antropologico l’intuizione centrale che associa alla parola una decisiva energia creatrice, gli psicologi antichi si sono a lungo interrogati sul “viaggio” che può fare ogni parola offerta con cura, o malamente gettata a un ascoltatore. È un viaggio che connette il pensiero e l’azione, l’interiorità e le scelte che trasformano la realtà e incidono sulle relazioni, sugli ambienti, sul futuro sociale.

 

Il percorso delle parole che riceviamo è stato spesso rappresentato come un processo che inizia da un incontro fortuito – non scegliamo cosa catturerà la nostra attenzione, quali discorsi capteremo oggi, quali precise parole ci verranno rivolte… – ma che poi ci coinvolge interiormente come in un combattimento, talvolta catturandoci e spingendoci a fare qualcosa e magari anche a ripetere nel tempo quel gesto. «C’è innanzitutto – scrive tra gli altri Filoteo Sinaita, un monaco del X Secolo – l’assalto della tentazione, poi l’intrattenerci con essa, poi il consenso, poi la prigionia, poi la passione fatta di consuetudine e continuità. Ecco, allora, la vittoria nel combattimento contro di noi»(1).

 

Secoli prima, agli esordi di questa riflessione sulla parola, Evagrio Pontico ricordava anche in quale fase risiedesse il nostro potere: «Che i pensieri turbino o non turbino l’anima non dipende da noi; ma che essi si attardino o non si attardino, che muovano o non muovano le passioni, questo sì dipende da noi»(2). Una indicazione interessante, che sposta appunto “dentro” ciascuno la linea del vaglio delle parole: impossibile evitare di essere visitati, provocati, sorpresi, alle volte allietati ma altre feriti dal dire di altri che ci raggiunge, più o meno intenzionalmente. Ma quel che ne faremo di questi contenuti, quanto li coltiveremo, quanto dare o loro spazio e quindi forza, dipende da noi e dal nostro discernimento. Secoli più tardi, recependo ancora questa lezione, Tommaso d’Aquino osserverà che la “tentazione” non va intesa solo negativamente. Svolge, piuttosto, una funzione (in sé fisiologica) di attivazione, ci spinge – diremmo in termini contemporanei – a uscire dalla nostra zona di comfort, a mettere in discussone le nostre abitudini, a tornare a riflettere sulle alternative che abbiamo a disposizione.

 

«Tentare – scrive – propriamente è mettere qualcuno alla prova. Si mette alla prova qualcuno per sapere qualcosa di lui, e quindi lo scopo immediato di qualunque tentazione è conoscere. Talvolta, però, a partire dalla conoscenza si ricerca qualcosa d’altro, sia buono, sia cattivo: qualcosa di buono come nel caso in cui qualcuno voglia sapere a proposito di un altro come sia, tanto nel sapere, quanto nella virtù per farlo procedere ulteriormente; qualcosa di cattivo quando si vuole sapere le medesime cose per far cadere qualcuno o per corromperlo»(3).

 

Intuiamo allora il rapporto cruciale che esiste tra parola e educazione: la parola rivolta a qualcuno, specie se nella forma di una “call-to-action” – di un invito a pensare in un certo modo o a fare qualcosa – letteralmente “porta fuori” e fa uscire allo scoperto le abitudini, permette alle strutture interiori più stratificate e meno visibili di manifestarsi, anzitutto interiormente. Nel lessico degli antichi e di Tommaso in particolare, questo significa far emergere a maggiore consapevolezza virtù e vizi, dove il vizio è una assenza di virtù, un punto di esposizione e di fragilità, una difesa immunitaria debole. Ma poi ecco che entra in gioco l’intenzionalità di questi dialoghi: chi educa cerca di accompagnare le persone nel proseguire lì dove già sono attente al bene e nel rinforzarsi o riabilitarsi lì dove tendono a essere più esposte al fascino del male, del gesto o della parola divisivi, offensivi o semplicemente autoreferenziali. Chi corrompe indirizza in senso contrario: offre parole accomodanti con la facilità e con la prospettiva della cura esclusiva di sé, del disimpegno dall’attenzione verso gli altri.

 

Altrove, sempre Tommaso, aggiunge che chi “tenta” indirizzando al bene lo si riconosce anche perché poi accompagna e sostiene nella indubbia fatica della maturazione, della scelta, mentre viceversa chi lo fa offrendo un’illusione – e di fatto indirizzando al male –, poi abbandona, specie appunto nel momento in cui le difficoltà si palesano. Le parole, dunque, sono davvero importanti: disegnano mondi, suggeriscono futuri possibili, scavano nelle profondità di chi le ascolta, attivano processi di revisione, spingono verso azioni di un tipo o di un altro.

 

Se allora, da un lato, occorre educare e allenarsi ad una certa resistenza interiore, imparando a comprendere sempre più prontamente che cosa accogliere in se stessi, anche se in modo interrogativo, e cosa invece mettere da subito alla porta, riconoscendovi una tentazione ambigua, dall’altro occorre educare a allenarsi a vigiliare sulle parole che si offrono agli altri, specie a chi ci è affidato nella stagione della crescita e della maturazione umana e morale: aver cura delle parole che si rivolgono alle persone è aver cura delle persone stesse, della fisiologica fatica che attende ciascuno ogni volta che una parola mobilitante visita il parlamento interiore.

​

​

​

​

​

​

 

 

 

 

 

 

 

​​

​

​

​

(1) Filoteo Sinaita, Quaranta capitoli di sobrietà, § 34; tr. It. in La Filocalia, vol. 2, Gribaudi, Torino, 1983 p. 412.

(2) Evagrio Pontico, Trattato pratico. Cento capitoli sulla vita spirituale, Cap. 6; tr. It. Edizioni Qiqajon, Magnano (BI) 2008, p. 79.

(3) Tommaso d'Aquino, Somma di Teologia, I, q. 114, a. 2; tr. It. Edizioni Studio Domenicano, Vol. 1, Bologna 2014, p. 1232.

articolo grandi2.jpg
bottom of page