top of page

Vite a tempo determinato

Il paradigma nomade pervade anche la vita della scuola e delle ultime generazioni

e la precarietà salariale, abitativa,

relazionale è divenuta una condizione strutturale della contemporaneità, che impedisce progettualità e giustizia urbana. Occorre dunque ripensare la città come luogo di investimento affettivo e relazionale.

GRANATA Elena 3.jpg

Docente di Urbanistica al Politecnico di Milano 

GRANATA Elena 3.jpg

Avere un progetto di vita e, magari, riuscire anche a realizzarlo. È questa la vera risorsa scarsa del nostro tempo, dominato da un paradigma nomade: si vive in affitto, si cambia città per inseguire opportunità di lavoro sempre più aleatorie, si rinvia l’idea stessa di famiglia, si frammentano legami e appartenenze. La precarietà non è più una fase transitoria, ma una condizione strutturale. Il risultato è una società che disinveste sulla vita, che scoraggia ogni forma di radicamento, impedendo a intere generazioni di progettare il proprio futuro. Il paradosso è che viviamo in un’epoca di apparente abbondanza: le città sono piene di case vuote, i giovani sono sempre più qualificati, la tecnologia potrebbe alleggerire il lavoro e migliorare le condizioni di vita.

 

Eppure, la possibilità di immaginare un domani si restringe. Il capitale speculativo sostituisce il lavoro stabile, la rendita immobiliare soffoca l’abitare, l’algoritmo pesa più del contratto collettivo. Per questo oggi parlare di lavoro senza parlare di casa è miope. E parlare di diritti senza considerare la città è limitante. Difendere il lavoro significa anche difendere la possibilità di vivere, di costruire il proprio futuro e le proprie relazioni stabili.

 

Significa denunciare un sistema che premia la mobilità forzata, la discontinuità, l’individualismo competitivo e, al contrario, penalizza chi prova a restare, a investire in un mestiere, in una relazione, in una comunità. Molti giovani non sanno dove vivranno in futuro. E iniziano persino a dubitare di poter scegliere liberamente il luogo in cui abitare. Non è una differenza da poco: non solo non sanno dove andranno, ma si chiedono se potranno davvero decidere. All’ansia normale del crescere si aggiunge un senso diffuso di impotenza, di opportunità negate. Si domandano: potrò restare a Milano vicino alla famiglia? Dovrò lasciare Londra dopo lo stage? Riuscirò a costruire una famiglia a Bologna? Dovrò tornare al Sud per risparmiare sul costo della vita?

 

Le grandi città stanno diventando luoghi da vivere solo “per un periodo limitato”, con scadenze precise: la fine dell’università, l’arrivo dei figli, la perdita di un lavoro stabile, l’età della pensione. Abitare in città diventa una tappa obbligata solo in certe fasi della vita – gli anni dello studio, i primi lavori – ma poi restare diventa difficile. Se un tempo si dava per scontato che la città fosse il luogo in cui costruire qualcosa di stabile e duraturo, oggi questo diritto sembra sempre più incerto. Questa incertezza ha molto a che fare con un mercato abitativo dominato da logiche di rendita, che privilegiano investimenti a breve termine e affitti turistici.

 

La casa è il sintomo più evidente della metamorfosi radicale della vita urbana. Viviamo in un’economia che trasforma ogni cosa in merce. Casa, turismo, finanza, salute, lavoro e città non sono ambiti separati, ma manifestazioni diverse di un unico modello capitalistico estrattivo, che converte tutto – spazi, relazioni, tempo, affetti, corpi, vite – in beni di consumo. Quando l’abitazione è ridotta a bene di scambio, si rompe il legame tra spazio e vita quotidiana, tra luogo e identità. Conta solo chi può spendere di più: i turisti valgono economicamente più degli studenti, gli studenti più delle famiglie senza figli, le famiglie senza figli più di quelle con figli. Solo nell’ultimo anno, Milano ha perso 50.000 residenti, e a lasciare la città sono soprattutto giovani e famiglie.

 

Le conseguenze sono visibili: convivenze forzate, traslochi frequenti, affitti in nero in cantine e solai, soluzioni temporanee e informali. L’abitare è diventato precario quanto il lavoro, e la città non trattiene più i suoi abitanti: è un luogo da attraversare finché si può, prima di andarsene altrove. Il modello capitalistico contemporaneo trasforma le case in merci, il lavoro in qualcosa di incerto e le città in luoghi di transito, non di radicamento. In questo schema, abitare stabilmente, costruire relazioni durature, pianificare un futuro con figli, famiglia, continuità professionale e affettiva, diventa un’impresa quasi impossibile. Il nemico principale è la durata: ciò che richiede tempo, cura, investimento è visto come un ostacolo alla flessibilità che il sistema esige.

 

Pensiamo ai giovani che, pur laureati e qualificati, sono intrappolati in tirocini malpagati, contratti a termine, lavoretti nella gig economy. Spesso non possono permettersi un affitto, o vivono in condizioni abitative al limite della dignità: stanze condivise, subaffitti informali, residenze provvisorie. Pensiamo agli infermieri spostati da un reparto all’altro, da una città all’altra, senza stabilità. Ai docenti precari, costretti a cambiare scuola e regione ogni anno. Alle famiglie in affitto, che vivono con l’angoscia dello sfratto o dell’aumento del canone, spesso in quartieri privi di servizi e scuole. Le città, invece di essere luoghi da abitare, si riducono a spazi di passaggio, funzionali alla mobilità forzata e alle esigenze del mercato turistico.

 

La questione è profonda, e mette in discussione l’idea stessa di città come spazio in cui stare, abitare, radicarsi. Ciascuno di noi sa, per esperienza, che un progetto di vita si costruisce nel tempo e nello spazio, in un luogo dove si può crescere, lavorare, intrecciare relazioni, avviare imprese. Il progetto di vita non è un’astrazione individuale, ma un indicatore concreto di giustizia urbana. È la misura della qualità di una città, che non si esprime solo nella capacità di attrarre risorse e talenti, ma soprattutto nella possibilità di trattenerli e farli crescere. Una città giusta non è solo ben pianificata: è una città che permette di restare, di scegliere, che non costringe alla rinuncia o alla fuga. Come scriveva Amartya Sen, la libertà (in questo caso di abitare) non deve essere solo formale, ma effettiva: libertà di diventare ciò che si ha motivo di desiderare, di immaginarsi adulti, di sognare una famiglia, di invecchiare bene. Una libertà che passa per la disponibilità reale di case accessibili, affitti equi, scuole pubbliche, servizi sociali, trasporti efficienti, spazi verdi, luoghi di prossimità.

 

La giustizia urbana non è solo una questione tecnica: è la capacità di garantire a tutte e tutti la possibilità concreta di vivere una vita piena. Significa riconoscere che non partiamo tutti dallo stesso punto, e che i diritti, per essere tali, devono tradursi in opportunità reali, soprattutto per i più vulnerabili: giovani precari, persone con disabilità, migranti, giovani famiglie. Per rompere questo circolo vizioso che mette al centro il profitto, senza ricadute collettive, è necessario ripensare la città come luogo di investimento affettivo e relazionale, dove i percorsi di vita non siano asserviti alle logiche del mercato, ma diventino il fulcro delle politiche abitative, sociali e urbanistiche.

Nonostante fatiche, disagi e contraddizioni, le città continuano a rappresentare, nel nostro immaginario, spazi di innovazione sociale e cambiamento possibile. Ma per continuare ad abitarle, dovremo trasformarle. Non basteranno soluzioni tecniche, né piccoli aggiustamenti verdi, né qualche progetto di co-housing o co-working.

 

Serve cambiare le regole, le condizioni di opportunità, le priorità della politica locale. Se vogliono essere davvero “abitate” – e non solo attraversate, usate, consumate – le città devono tornare a essere luoghi in cui si costruiscono progetti di futuro. Le nuove generazioni sono le più resistenti a questo processo di chiusura. Non accettano più di lavorare otto ore in un ufficio rinunciando alla loro vita, ma si trovano davanti troppe porte chiuse. Dovremmo ascoltarli di più, riconoscere il loro malessere, la loro eco-ansia, quell’ansia di relazioni positive che mette in moto il cambiamento. Credere che il cambiamento sia possibile. Aprire spazi dove si adottano nuovi stili di vita. Contagiare altri con la nostra azione. Rendere visibili i piccoli cambiamenti. in materia di istruzione scolastica.

articolo granata1.jpg
bottom of page