top of page

formazione

La formazione
che valorizza gli insegnanti 
e fa bene agli studenti
 

La formazione del personale docente non si esaurisce

con l’abilitazione, ma prosegue lungo una filiera in grado

di contribuire alla crescita professionale e, di riflesso,

al miglioramento  degli ambienti

(e dunque dei risultati) 

di apprendimento. 

BRUSCHI.jpg
BRUSCHI.jpg

Professore di diritto scolastico

nelle Università Statale Bicocca di Milano

e Suor Orsola Benincasa di Napoli 

Aveva profondamente ragione Daniel Pennac ad asserire che «la scuola è fatta prima di tutto dagli insegnanti»(1), osservazione che deriva anche dalla propria consapevolezza professionale, visto che l’autore del fortunato ciclo di Malaussene ha felicemente combinato scrittura e docenza(2). Basta ovviamente non dimenticare il secondo termine, implicito per Pennac, ma non di rado eluso, dell’endiadi educativa: la scuola è fatta prima di tutto dagli insegnanti e per gli studenti (e guai ad invertire le preposizioni…). Ma quali insegnanti?

 

A grandi linee, a partire dall’Institutio oratoria di Marco Fabio Quintiliano, il profilo del magister è riassunto in due tratti essenziali, le cui specifiche ovviamente variano nel tempo e nei contesti: la conoscenza delle discipline che è chiamato a insegnare; la conoscenza e la pratica delle didattiche attraverso cui l’insegnamento si trasforma in apprendimento. Cos’è l’abilitazione se non l’attestazione del possesso di queste caratteristiche? Se ciò è vero, il percorso che conduce al titolo dovrebbe essere preordinato alla loro maturazione e verifica: in sostanza, le attività e i momenti di valutazione intermedia e finale dovrebbero essere progettati avendo a riferimento gli standard desiderati, con l’avvertenza di non porre, come alle volte si fa, obiettivi pindarici scanditi da valutazioni meramente formali.

 

In Italia, il percorso di abilitazione degli insegnanti delle scuole dell’infanzia e primaria ha goduto di una secolare continuità, che ha visto passare il testimone, nell’anno accademico 1999/2000, dai gentiliani istituti magistrali ai corsi di laurea a ciclo unico in scienze della formazione primaria, attraverso l’adozione di un modello di tipo «integrato» che prevede per l’appunto l’integrazione (e non la semplice simultaneità) della formazione teorica, pratica e generale. Non così la formazione degli insegnanti del segmento secondario, che ha subito nell’ultimo quarto di secolo continue revisioni, una varietà di soluzioni (SSIS e percorsi AFAM riservati agli insegnanti di discipline musicali, artistiche e coreutiche, TFA, FIT, svariati percorsi riservati) e una assoluta discontinuità, fatta di lunghe pause tra un percorso e l’altro e di un affannoso deliberare che ha inibito tanto la loro istituzionalizzazione, quanto una ragionata valutazione della loro efficacia.

 

L’approvazione del Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 4 agosto 2023, dopo un iter piuttosto travagliato, ha riavviato la stagione delle abilitazioni della secondaria. Una novità è costituita dall’identificazione, per ciascun ambito, di un syllabus di apprendimenti posto ad evitare che l’autonomia accademica si trasformi in anarchia, mentre una seconda, auspicabile, novità sarebbe l’adozione di modelli di monitoraggio e valutazione, pure previsti, ma non ancora realizzati. Resta però che la formazione del personale docente non si esaurisce con l’abilitazione, ma prosegue lungo una filiera in grado di contribuire al benessere professionale e, di riflesso, al miglioramento degli ambienti (e dunque dei risultati) di apprendimento. Non rispondono a questa funzione né la bulimia da certificazione, che porta ad accumulare titoli per così dire di «svariata» qualità, spendibili certo al mercato delle tabelle di valutazione, ma non sempre nella pratica didattica; né tantomeno la logica dell’adempimento formale, per sua natura noncurante della ricaduta effettiva delle attività sul «fare scuola».

 

La filiera prevede ad oggi quattro ambiti: 1. la formazione prevista dal D.M. 226/2022 per i docenti neo immessi in ruolo; 2. i percorsi di «formazione incentivata» e 3. di «formazione continua obbligatoria» (D.Lgs 59/2017, art. 1 comma 3 e articolo 16ter), i primi in fase di verifica politica, i secondi che si dipanano all’interno delle istituzioni scolastiche in relazione ai piani di miglioramento e alle loro eventuali specificità; infine, 4. la possibilità di iniziative formative specifiche da parte dell’amministrazione su particolari innovazioni ordinamentali. Solo nel primo caso vi è uno schema normativo che parte dalle esigenze specifiche del docente, da fotografare attraverso il «Bilancio iniziale delle competenze» e il correlato «Patto di sviluppo professionale». Queste almeno le intenzioni del legislatore, perché in realtà la modulistica, inducendo a indicare un numero esorbitante di priorità, fa svaporare ogni possibilità di formazione efficace. La stessa formazione, inoltre, è spesso modellata sulle «offerte» delle scuole polo più che sulle necessità del neo immesso: si potrebbero certo sostituire percorsi poco funzionali con attività pagate attraverso la carta docente, ma si tratta di una strada ben poco battuta.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

L’esempio del periodo di formazione e prova stimola due considerazioni su cosa dovrebbe caratterizzare la formazione in servizio per consentire di trasformarla da obbligo percepito a opportunità vissuta. Occorre innanzitutto che sia rivolta a qualsiasi docente, a prescindere dal suo status (tempo determinato/indeterminato), ma partendo dal suo profilo e dalle sue esigenze, anche (ma non solo) rapportate alle necessità dell’istituzione scolastica. È così difficile pensare a una stipula precoce del Patto di sviluppo professionale e a una correlata rimodulazione del Portfolio, ad oggi ancorati esclusivamente al periodo di formazione e prova e non a un’anagrafe? È così impossibile personalizzare la formazione, evitando le ridondanze che hanno, come unico effetto, lo spreco dell’unica risorsa davvero limitata e non rinnovabile, ovvero il tempo? Occorre lavorare sulla motivazione e sulla personalizzazione. Perché senza motivazione, ogni percorso rischia di essere vanificato sin dal principio, ma la motivazione nasce dalla consapevolezza delle proprie caratteristiche professionali e dalla convinzione di voler acquisire strumenti efficaci per lavorare meglio; e senza personalizzazione si ripete un modello burocratico di spesa e non di investimento.

 

Secondo: la formazione andrebbe, sistematicamente, valutata. Certo, verificando la qualità dei percorsi, tutt’altro che omogenea, ma ancora di più le ricadute sull’ambiente di apprendimento. Limitarsi ai questionari è insensato, tanto quanto invece si rivela prezioso lo strumento del tutoraggio in aula, diretto e indiretto, che non a caso fa parte dei pacchetti formativi meglio progettati, ma che difficilmente entra nei criteri di valutazione delle offerte da parte delle istituzioni scolastiche.

 

Un’ultima nota riguarda la formazione sugli aspetti ordinamentali. Ammoniva Vittorio Emanuele Orlando che «se la pratica scolastica non segue l'impulso, che gli atti legislativi o regolamentari tendono ad imprimerle, la norma rimane una pura affermazione teorica, il consiglio uno sterile desiderio»(3). Ed è solo un accompagnamento intelligente e sistematico a poter far sì che da affermazioni teoriche e sterili desideri le innovazioni incidano sulla vita pratica delle istituzioni scolastiche.

 

 

 

 

 

 

 

(1) «Ho sempre pensato che la scuola fosse fatta prima di tutto dagli insegnanti. In fondo, chi mi ha  salvato dalla scuola se non tre o quattro insegnanti?», Daniel Pennac, Diario di scuola (titolo originale, Chagrin d’école, 2007).

(2) E valga la motivazione con cui l’Alma Mater Studiorum, il 26 marzo 2013, ebbe a conferirgli la laurea ad honorem in Pedagogia: «Per il suo costante impegno sul fronte della pedagogia della lettura e della riflessività pedagogica, per aver posto la necessità del leggere al centro dell'azione educativa, per la sua mirabile attenzione allo sguardo, al vissuto, ai diritti propri dell’infanzia e dell’adolescenza, per la sensibilità sempre dimostrata nei confronti di coloro che meno riescono ad integrarsi all’interno delle istituzioni educative e per le strategie ideate e condivise per coinvolgere gli studenti meno “bravi” in termini strettamente scolastici e conquistarli alla passione per la conoscenza».

(3) V.E. Orlando, Regio Decreto 29 gennaio 1905, n. 45, recante «Programmi per le scuole elementari».

reading-2557256_1280.jpg
bottom of page