ARTE CINEMA LIBRI MUSICA
• Erica Cassetta
"La zona d'interesse"
• Annamaria Iantaffi
"La speranza
che muove il mondo"
• Francesco Ottonello
George Gershwin.
Un americano a Parigi
"La zona
d'interesse"
Ne “La zona d’interesse”
Jonathan Glazer rappresenta,
nella quotidianità della casa di campagna della famiglia Hoess,
il simulacro di quella che,
prima dell’avvento del nazismo,
poteva dirsi umanità.
Solo coltivando il bene, a scuola
e nella società, sebbene precario,
lo si potrà tutelare.
Il film “La zona d’interesse”, scritto e diretto da Jonathan Glazer, è stato presentato in anteprima al Festival di Cannes nel maggio del 2023 ed è uscito in Italia a febbraio 2024.
È stato vincitore del premio Oscar come miglior film straniero, contendendo il primo posto a “Io capitano” di Matteo Garrone.
Narra la vita condotta, in una villetta adiacente al campo di Auschwitz, da Adolf Hoess, comandante del campo – interpretato da Christian Friedel e da sua moglie Hedwig, interpretata da Sandra Huller – e dai loro cinque figli.
L’inizio del film è occupato da una scena, non-scena, un buio assoluto e assordante che si confonde con quello reale della sala di proiezione in cui gli spettatori-attori entrano in una dimensione di attesa, aspettando che l’oscurità finisca. Secondi, minuti, cinque interminabili minuti che fanno temere qualche problema tecnico, un cattivo funzionamento della pellicola.
Dove si collocano questo buio, questa assenza di gesti, di suoni, di luce, di vita?
A livello della storia che non si può rappresentare, perché ciò che succede, che è successo è l’indicibile, l’innominabile, il non pensabile. La sconfitta dell’umano, la definitiva cancellazione di duemila anni di storia cristiana e illuminista.
Non resta allora che rappresentare il simulacro dell’umano, esseri ridotti a recitare un’esistenza uniformata, che aderisce a leggi e principi che valgono tra loro, gli eletti ariani, e che essi impongono agli altri, nella zona di loro pertinenza.
Nel recinto di un mondo piccolo borghese (quasi una rassicurante compensazione dell’orrore reale delle azioni compiute come seguaci del nazionalsocialismo) di una famiglia nazista d’eccellenza, quella del Kommandant Rudolf Hoess, in cui non esistono relazioni autentiche, neanche tra genitori e figli o tra marito e moglie, e tutto si gioca nella cristallizzazione di ruoli imposti dal regime totalitario che ha invaso ogni manifestazione della vita sociale e privata, oltre che aver occupato quasi l’intero vecchio continente dove ambisce ad esportare e imporre il nuovo ordine.
Sicuramente, ciò che riesce ad esportare nelle terre conquistate, o alleate, sono i campi di lavoro e di sterminio, nelle zone di vecchia e nuova industrializzazione, a cui servono braccia vigorose di uomini e donne, più economiche delle macchine, e dove sarà praticata la soluzione finale dello sterminio degli ebrei. E se i corpi non sono sufficientemente vigorosi e sani, bisogna liberarsene e farlo nel modo più scientifico ed economico possibile. Di ciò si occupa nel campo più importante e che diverrà il più tristemente noto per la sua “efficienza”, il protagonista maschile del film.
Ciò che resta dell’umano risiede dall’altra parte del muro, in un oltre, residuo della storia passata, che secondo il disegno dei dominatori deve essere rimosso attraverso l’eliminazione definitiva di ciò che non è omologabile per definizione, l’Ebreo. Da quell’altro mondo ci giungono suoni stridenti, grida, urla animalesche di uomini, suoni del loro dolore, fumo di corpi che sale verso l’alto, ceneri sparse sulla terra dell’orto della casa dove i privilegiati della razza superiore conducono la loro apparentemente ordinata esistenza. Sono i prigionieri del campo che si occupano di spargere le ceneri residue dei corpi bruciati nei forni crematori, nell’orto e nel giardino per concimarne la terra. Le stesse ceneri riversate nel fiume che scorre accanto al campo, anche quando il comandante e i suoi figli vi pescano e fanno il bagno, in una nemesi che diventa per lo spettatore un momento liberatorio e catartico.
La prima sequenza del film è un “Dejeuner sur l’herbe” (i corpi pallidi e la luce che li colpisce fanno pensare a Georges Seurat) durante una scampagnata al fiume di un padre, una madre, i loro cinque figli, una bambinaia e un attendente. La madre tiene in braccio un neonato; il padre con i due figli maschi e l’attendente andranno a fare il bagno nel fiume, mentre le figlie con la madre e la bambinaia andranno a raccogliere i frutti di bosco, secondo una divisione dei ruoli che vuole le donne come madri, dedite alla cura della casa e dei maschi, ma attente alla cura del corpo che deve generare i figli della razza eletta, e gli uomini dediti al lavoro fuori casa e agli sport che rafforzano il loro vigore fisico.
Al rientro a casa, la sera, il padre si preoccupa di chiudere porte e finestre, serrandole con le chiavi come temendo un’impossibile intrusione; la madre sale al primo piano dove si trovano le camere da letto.
La mattina successiva avremo modo di vedere una parte dell’interno della casa e seguiremo il comandante del campo nel cortile, dove lo attende una canoa, regalo della moglie per il suo compleanno e con la quale remerà nel fiume insieme ai figli.
Un muro alto divide lo spazio familiare, privato, dove si svolge la tranquilla esistenza borghese con i bambini che giocano, escono per andare a scuola, la madre che si dedica all’orto e al giardino e alla conduzione delle faccende domestiche, della servitù reclutata tra le ragazze polacche (“non tra le ebree” dirà Edwidge alle mogli delle altre SS in visita per il caffè) e lo spazio “pubblico” del lavoro nel capo, che il comandante raggiunge con un cavallo che lo aspetta fuori dal cancelletto di casa.
La zona d’interesse si allarga quindi dallo spazio privato a quello pubblico, senza che ci sia in realtà una vera distinzione tra i due, perché entrambi sono soggetti ad uno stesso principio uniformante, ad un unico interesse, che discende da un capo supremo e da coloro che eseguono le sue volontà e a cui tutta l’esistenza si sottomette. Sarebbe possibile vivere altrove e diversamente per coloro che hanno ciecamente e totalmente seguito quel capo fino ad accettare con la guerra la distruzione finale dello stesso suolo patrio? Pochi comunque ebbero la coerenza estrema di Goebbels e di sua moglie Magda che si suicidarono insieme al Führer portando con sé i propri figli, come è stato magistralmente raccontato dal film “La caduta”, con protagonista Bruno Ganz.
Ma il film non giunge ad una radicalità assoluta… Gesti di pietà sono ancora possibili: la bambina polacca che abita con la madre ai confini del campo e che nasconde di notte i frutti che i prigionieri possono trovare il giorno dopo, quando escono per andare a lavorare; un’altra vita che viene rappresentata colorando di rosso sanguigno la pellicola.
Ma anche all’interno del recinto della famiglia Hoess emerge qualche spiraglio di umanità, anche se di umanità sofferente: il sonnambulismo di una delle figlie o la fuga della madre di Hedwig quando si rende conto di ciò che sta succedendo al di là dal muro.
Non alla banalità del male ci fa pensare “La zona d’interesse”, ma alla precarietà del bene; la rapidità con cui i valori umanisti della fraternità/sorellanza, uguaglianza, libertà, giustizia, onestà, verità a cui improntare la propria esistenza e quella della collettività si siano in poco tempi dissolti, abbiano perso di “valore”, primo fra tutti la pietà (l’empatia, la partecipazione al destino altrui, identificazione nell’altro/altra).
E abbiano preso il loro posto la menzogna, la disonestà, l’iniquità e l’ingiustizia, la prepotenza e l’arroganza, la violenza e la protervia, l’indifferenza.
Ma ci rammenta anche come con quale rapidità e almeno apparente facilità si sia tornati alla normalità precedente, nella rimozione e assoluzione collettiva operata nella Germania post bellica rispetto alle responsabilità di chi non seppe riconoscere la natura del nazismo e non seppe o non volle opporvisi. I conti con questo passato tenterà di farli la generazione successiva in una maniera così nichilista e assoluta che non ha seminato germi positivi di rinascita.
Anche la trasformazione dei campi di concentramento in luoghi della memoria museale, l’esposizione dei forni crematori alla fruizione dei turisti-consumatori, piuttosto che insegnamento e monito sembra significare una normalizzazione dell’orrore, l’impossibilità di andare sino in fondo alla natura del male, alla sua dimensione ontologica, e di come alla colpa estrema non siano corrisposti il riconoscimento di responsabilità e quindi un pari giudizio.
Meglio quindi normalizzare il male e accettare l’impossibilità della sua riparazione.
Coltiviamo allora il bene a scuola, nelle famiglie, nei luoghi pubblici e privati, finché riusciamo ancora a percepirne i caratteri e l’importanza per la vita degli esseri umani, di donne e uomini, nella natura di cui fanno parte e in cui coabitano altri esseri viventi.