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Il Canto degli Italiani 
e l'Inno alla gioia
Due inni, due visioni

Il Canto degli Italiani e l’Inno alla gioia di Beethoven rappresentano due inni con origini, funzioni e visioni          profondamente diverse, ma sono      entrambi simboli potenti di identità collettiva. Il confronto evidenzia un cambiamento di mentalità da identità nazionali contrapposte a un ideale     europeo di pace e cooperazione;        

li accomuna la capacità

di emozionare e unire le persone attraverso la musica.

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​Percussionista e musicologo

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Due inni, due visioni: il Canto degli Italiani e l’Inno alla gioia di Beethoven. Gli inni, in generale, rappresentano qualcosa di più profondo rispetto a semplici canzoni patriottiche: diventano simboli, strumenti di identità collettiva, ponti tra la memoria storica e il presente. Alcuni nascono sui campi di battaglia,  altri  tra  le  pagine  della  poesia  o  ancora  su  ispirazioni  di  grandi  temi  mutuati  dalla musica colta. Due  esempi  particolarmente  significativi  di  inni  sono  il  Canto degli Italiani,  oggi  inno nazionale dell’Italia, e l’Inno alla gioia di Ludwig van Beethoven, adottato come  inno dell’Unione  Europea.

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Nati in epoche diverse, con funzioni diverse, questi due brani offrono uno spunto affascinante per riflettere sul concetto di identità, appartenenza e ideale collettivo. Il Canto degli Italiani,  scritto  nel  1847 da  Goffredo  Mameli  e  musicato  poco  dopo  da  Michele Novaro, è il frutto di un’epoca di fermento patriottico. L’Italia, a quel tempo, non era ancora una nazione unita, ma un mosaico  di Stati,  separati fra loro e molti dei quali  soggetti a dominazione straniera.  Questo  canto  nasce  dunque  come  inno risorgimentale,  ispirato  al  desiderio  di  unità, libertà e indipendenza. Non è un brano pensato per cerimonie ufficiali o eventi sportivi, come oggi lo conosciamo, ma un vero e proprio grido di riscossa, un appello rivoluzionario. Il  testo  di  Mameli  è  retorico,  a  tratti  acceso:  invoca  la  necessità  di «stringerci  a  coorte»,  di combattere perché «siam pronti alla morte», evoca la gloria di Roma antica e le umiliazioni patite dall’Italia  in  epoche  recenti.  Il  tono  è  quello  di  una  chiamata  alle  armi,  rivolta  a un  popolo  che ancora  non  esiste  come  nazione  unita,  ma  che  si  riconosce  nella  volontà  comune di  risorgere.

 

Musicalmente,  la  musica  del  genovese  Michele  Novaro  è  semplice,  orecchiabile,  pensata  per essere  facilmente  cantata  da  grandi  folle.  Il  ritmo  è  marziale,  l’armonia  semplice  e  diretta, l’andamento  incalzante.  Tutto  è  funzionale  al  messaggio:  non  serve  una  elaborata  raffinatezza musicale, serve l’efficacia immediata. Ed è proprio per questa sua natura popolare e partecipativa che il Canto degli Italiani ha attraversato i decenni ed è arrivato fino a noi, venendo scelto nel 1946 come inno provvisorio della Repubblica Italiana, poi confermato definitivamente nel 2017.

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Diversa, quasi opposta, è invece la storia dell’Inno alla gioia. Questo brano è in realtà il quarto e ultimo movimento della Nona Sinfonia di Beethoven, composta nel 1824. Il testo, tratto da un’ode del poeta tedesco Friedrich Schiller, esprime un’idea universale di fratellanza tra i popoli, di unità del  genere umano  al  di  là  dei  confini  geografici,  politici  e  culturali.  «Tutti  gli  uomini  diventano fratelli»,  recita il  verso  più  celebre  dell’ode.  È  una  visione  cosmopolita,  idealista,  che  guarda  a un’umanità  riconciliata  dalla  bellezza  e  dalla  ragione.  Anche  in  questo  caso  il  contesto  storico  è significativo. Beethoven,  ormai  completamente  sordo  al  momento  della  composizione,  viveva  in  un’Europa uscita sconvolta  dalle  guerre  napoleoniche.  La  Restaurazione  aveva  riportato  in  auge  i  vecchi poteri, ma le istanze rivoluzionarie e illuministe non erano scomparse. In questo clima, l’Inno alla gioia si propone come un messaggio di speranza e di riconciliazione, non più rivolto a una nazione, ma a tutta l’umanità. Dal punto di vista musicale, il confronto è ancora più marcato.

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Beethoven parte da un tema estremamente semplice, quasi una melodia popolare, ma lo sviluppa in  una struttura  monumentale,  complessa,  colta,  estremamente  ricca  e  raffinata.  Il  genere  della Sinfonia, fino ad allora tradizionalmente solo strumentale, si espande fino a includere voci soliste e coro, in un crescendo emotivo e simbolico senza precedenti nella storia della musica sinfonica. È una  vera  e propria  celebrazione  dell’ideale  umano,  espresso  con  i  mezzi  più  alti  della  tradizione musicale occidentale.

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Quando, nel 1972, il Consiglio d’Europa scelse l’Inno alla gioia come inno dell’Europa,  e successivamente  nel  1985  lo  adottò  ufficialmente  come  inno  dell’Unione  Europea,  decise  di utilizzarlo in versione strumentale. Questo non fu un caso: eliminare il testo significava sottolineare il carattere universale e inclusivo dell’inno. In una comunità linguistica così diversificata, la musica poteva diventare  un  linguaggio  comune,  comprensibile  a  tutti  senza  bisogno  di  parole.  Questa scelta segnala  anche  un’altra  differenza  fondamentale  rispetto  al  Canto  degli  Italiani:  mentre quest’ultimo parla in nome di una nazione, con una precisa identità storica e culturale, l’Inno alla gioia si rivolge all’umanità intera, ed è stato scelto come simbolo di un’Europa unita non per via etnica, ma per ideali condivisi. Eppure,  nonostante  queste  profonde  differenze,  i  due  inni  hanno  anche  elementi  in comune. Entrambi  nascono  in  contesti  storici  di  crisi  e  trasformazione.  

 

Il  Canto degli Italiani in  un’Italia ancora frammentata e sottomessa, l’Inno alla gioia in un’Europa ferita dalle guerre. In entrambi i casi, la musica diventa uno strumento di visione e speranza, un modo per immaginare un futuro diverso, più giusto, più coeso. C’è  poi  un  altro  legame  più  sottile  ma interessante:  entrambi  i  brani  esprimono  un  sentimento collettivo,  che  si  pone  al  di  sopra  del singolo  individuo.  L’io  si  dissolve  nel  noi.  Mameli  scrive «Stringiamoci  a  coorte»,  Schiller  canta «Tutti  gli  uomini  diventano  fratelli».  In  entrambi  i  casi, l’identità personale  si riconosce in una comunità più ampia, che può essere la nazione o l’intera umanità. Dal  punto  di  vista  della  ricezione, entrambi  gli  inni  sono  diventati  oggetto  di  uso  pubblico  e cerimoniale,  ma  con  modalità  molto diverse.  

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Il  Canto degli Italiani è  onnipresente  negli  eventi sportivi, scolastici, istituzionali; l’Inno alla gioia è più raro, più solenne, legato a cerimonie ufficiali europee  o  a  grandi  momenti  simbolici,  come  la  caduta del  Muro  di  Berlino  o  l’allargamento dell’Unione  Europea.  La  loro  funzione  è  dunque complementare:  il  primo  alimenta  l’identità nazionale, il secondo quella sovranazionale. Il primo ricorda un passato di lotta e di costruzione, il secondo   invita   a   guardare   a   un   futuro   di   cooperazione   e   armonia.   Sono   due   modelli   di appartenenza  che  non  si  escludono,  ma  che  anzi possono  coesistere:  l’identità  nazionale  come radice, quella europea come orizzonte. Vale  anche  la pena  considerare  un  accenno  all’aspetto  linguistico.  Il  testo  dell’Inno  nazionale italiano,  scritto  in un idioma  prettamente  ottocentesco,  risulta  a  tratti  arcaico  per  l’ascoltatore moderno, tanto che non sempre se ne coglie appieno il significato. Frasi come  «Dall’Alpe a Sicilia dovunque   è   Legnano»   o   «Calpesti,   derisi,   perché   non   siam   popolo»   richiedono   una   certa mediazione  culturale.  

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L’Inno alla gioia,  d’altro  canto,  proprio  nella  sua  versione  strumentale  ha rinunciato al testo, diventando puro suono, veicolo di emozioni senza parole. Questo lo rende forse più accessibile dal punto di vista emozionale, ma anche più aperto all’interpretazione. Nel  confronto  fra  questi  due  inni  emerge  infine  anche  un  cambiamento  di  mentalità.  L’inno  di Mameli/Novaro nasce in un mondo ancora segnato da confini rigidi, da guerre di indipendenza, da identità  nazionali  fortemente  contrapposte.

 

L’Inno  alla  gioia,  e  più  estesamente  la  musica  di Beethoven, è il simbolo di un’epoca nuova, in cui la sfida è quella di superare le divisioni nazionali per  costruire  un’unità  fondata  su  valori  condivisi dell’Umanità.  È  un  messaggio  di  pace  e  di fratellanza, che oggi suona particolarmente attuale in un’Europa che deve confrontarsi con nuove crisi e nuove sfide.

 

Il  confronto  di  queste  pagine  musicali, così  diverse  fra  loro,  ci  offre  comunque  un’occasione preziosa per  riflettere su  come la musica possa diventare linguaggio di identità, di memoria e di speranza. Due brani, due epoche, due modi di pensare l’appartenenza e l’unità, ma con una cosa in comune: la capacità di emozionare e unire chi li ascolta.

 

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IL CANTO DEGLI ITALIANI:

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INNO EUROPEO

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