valutazione
La valutazione:
autonomia e progresso dell'educazione
La rilevanza della valutazione
è cresciuta con la maggiore scolarizzazione. Mentre nel ‘900
si segnalano progetti nati dal dibattito interno ai sistemi educativi e orientati
a scenari di progresso sociale
e culturale, le tendenze più recenti
sono improntate a logiche produttivistiche e di marketing,
con una sempre più tenue attenzione per gli scenari di lungo periodo.
Pedagogista. È professore emerito
presso l’Università Roma Tre
La valutazione ha acquistato una rilevanza crescente a misura del crescere dei soggetti coinvolti in percorsi educativi. Non che in precedenza non vi fosse un’attività valutativa, ma essa si svolgeva in modo inapparente, annidata nel rapporto fra le due funzioni dell’insegnare e dell’apprendere. Il rapporto tra i soggetti poteva anche un po’ discostarsi da uno ad uno, ma era sostanzialmente di tipo individuale.
Il compito valutativo ha assunto caratteristiche formali progressivamente più definite quando ad una prevalenza del precettorato si sono venute sostituendo pratiche capaci di rispondere ad una domanda collettiva e quando il soddisfacimento di tale domanda ha assunto una rilevanza per la vita sociale.
Ci sono esempi di pratiche valutative di grande complessità già nel percorso per la selezione dei funzionari del Celeste Impero (che culminava in forme raffinate di controllo terminale del livello di apprendimento conseguito); altri esempi importanti si sono avuti fin dal medioevo, anche in questo caso soprattutto negli studi superiori (è nota, per esempio, l’esperienza della Scuola medica salernitana). In Europa, tuttavia, l’esigenza di associare un valore ad un percorso di apprendimento è andata estendendosi, di pari passo con l’alfabetizzazione, a partire dalla metà del trascorso millennio.
Si può persino indicare una data a quo, la vigilia di Ognissanti del 1517, il giorno in cui Martin Lutero affisse le sue tesi alla porta della cattedrale di Wittemberg. In quelle tesi si affermava la dottrina del libero esame, ovvero del diritto-dovere dei cristiani di leggere e interpretare la Bibbia senza dover sottostare alla mediazione del clero. Si poneva dunque un problema tecnico, quello di estendere a tutti la competenza alfabetica.
Era un problema nel quale si annidava anche una esigenza politica, una spinta verso l’equità delle condizioni, cresciuta successivamente fino a trovare espressione formale in contesti sociali e organizzativi di varia origine e consistenza. Le nuove esigenze educative sono state interpretate dalle aggregazioni religiose a quelle solidaristiche, fino a diventare un vero e proprio progetto di trasformazione dei tratti distintivi della popolazione quando la Convenzione Nazionale, nel 1793, in piena Rivoluzione francese, e malgrado larga parte d’Europa si fosse coalizzata per reprimere l’affermarsi dei principi di libertà, uguaglianza e fraternità, aveva dichiarato il diritto universale all’istruzione. L’Ottocento e il Novecento sono stati, per i paesi di cultura europea, i secoli della grande scolarizzazione. A tale trasformazione ha preso parte anche l’Italia a partire dal 1861, l’anno in cui fu raggiunta l’unità politica del paese. Sarà utile ricordare (penso alle stime contenute in uno studio, ormai classico, di Tullio De Mauro, Storia linguistica dell’Italia unita, Bari, Laterza, 1963) quali fossero in quell’anno le condizioni della cultura alfabetica della popolazione italiana: sapeva leggere e scrivere circa un ventesimo della popolazione ed era forse un decimo quella che comprendeva l’italiano.
I rapidi richiami alla crescita della scolarizzazione sono necessari per capire la rilevanza che in essa ha assunto la valutazione, ed anche la crisi che negli ultimi decenni si è venuta a manifestare.
La valutazione consiste, infatti, nell’associare un valore noto a qualcosa che ci interessa conoscere meglio. Può essere un oggetto, ma anche una persona, in tutto o in parte. In un contesto educativo la parola si riferisce essenzialmente al significato che è venuta assumendo a partire dal XIX secolo ed è stata usata (e spesso lo è ancora) per indicare livelli dell’apprendimento degli allievi. Più di recente, hanno acquistato rilevanza anche aspetti non riferibili all’apprendimento, ma si è trattato di distinguere fattori prima compresi in un’unica indicazione di valore, come l’apprendimento e l’affettività. All’attribuzione scolastica una più complessa interpretazione dell’attività valutativa ha aggiunto la specificazione di sistema, come quelle che si riferiscono allo strumentario e all’organizzazione del lavoro.
Occorre prestare attenzione ai cambiamenti che si rilevano nel tempo perché i criteri che sono alla base dell’attribuzione dei valori sono soggetti a cambiamenti sempre più rapidi. O, meglio, c’è bisogno di distinguere fra i criteri che si presume dovrebbero persistere nel tempo e i criteri che, per quanto rilevanti in un certo periodo, sono soggetti a più rapido superamento. L’individuazione di criteri stabili e l’accettazione di esigenze tendenzialmente effimere è alla base della definizione delle politiche scolastiche, e più generalmente, educative.
Proprio alla definizione delle politiche è da riferire la crisi dei sistemi educativi che, ove più, ove meno, sta estendendosi nei paesi industrializzati. Del resto, quella che è venuta meno è stata l’associazione virtuosa tra l’impegno per la ricerca educativa, la revisione degli intenti e la precisazione di obiettivi per il lungo periodo. La valutazione è servita da collante per l’interpretazione dei diversi apporti e la loro conversione in valori di riferimento. Due esempi sono significativi.
Il primo risale agli anni ’30 dell’Ottocento: nella città di Boston il numero di allievi che frequentava le scuole secondarie aveva raggiunto le 7.000 unità, un numero che sembrava essere enorme, e lo era se si considera che solo una frazione modesta degli adolescenti seguiva percorsi di istruzione che si prolungava fin quasi al termine del secondo decennio di vita. Il commissario di Stato per l’educazione del Massachusetts era Horace Mann, il primo a ricoprire un incarico di governo per la scuola. Questi si trovò in seria difficoltà per il conflitto che contrappose le famiglie alle scuole, due istituzioni che si scambiavano l’accusa di non aver saputo contrastare la caduta qualitativa degli studi. Per trarsi d’impaccio, Mann organizzò un’ampia ricognizione degli apprendimenti conseguiti dagli allievi di Boston, ai quali era chiesto di rispondere ad un questionario contenente 150 domande, tese a saggiare l’acquisizione di un’ampia gamma di nozioni, concetti e capacità operative la cui validità si proiettasse nel lungo periodo.
Le domande erano formulate in modo che la risposta corretta non potesse dar luogo ad ambiguità nella fase di rilevazione dei dati. Non mi soffermo sui risultati ottenuti: in queste note ciò che mi sembra più importante è rilevare che si afferma uno dei requisiti centrali delle prove di valutazione, quello della attendibilità. È il requisito sul quale si è rivolta più di frequente l’attenzione di quanti successivamente hanno fatto della valutazione oggetto di ricerca. Dal mio punto di vista, sarebbe stato necessario, anche se meno agevole, rivolgere la medesima attenzione all’altro irrinunciabile requisito, quello della validità, i cui limiti continuano ad essere evidenti e determinano molta della confusione che si manifesta nel confronto sulla valutazione.
Il problema della valutazione è diventato sempre più complesso a misura del crescere delle quote di popolazione scolarizzata, dell’estendersi dei diritti civili e politici, del mutare dell’organizzazione sociale, dei cambiamenti che hanno coinvolto i processi produttivi. C’è il rischio di non cogliere quanto di diverso si presenta da una generazione alla successiva (ma ormai anche all’intento della stessa generazione), se non si riflette sulle ragioni di tale diversità e sui modi in cui essa è percepita.
Il secondo esempio è legato alla tendenza a generalizzarsi dell’istruzione secondaria. Al termine della Prima Guerra Mondiale, le potenze vincitrici sottoscrissero a Washinton un documento, in forza del quale si impegnavano a promuovere per tutti un percorso di istruzione di otto anni.
In alcuni paesi quell’obiettivo corrispondeva già ad una realtà diffusa, in altri era ben lungi dall’essere conseguito (è il caso dell’Italia). Non era difficile immaginare che dopo un percorso di base di otto anni la domanda di istruzione sarebbe cresciuta ulteriormente, fino a colmare l’intervallo fra l’istruzione secondaria inferiore e il conseguimento di un diploma di scuola superiore. I paesi a più alta scolarizzazione si ponevano sia interrogativi a carattere tecnico (come sottoporre gli allievi a prove che consentissero di apprezzare il livello di apprendimento raggiunto, sia – più ampiamente – di carattere strategico (come far fronte al crescere dell’esigenza di istruzione per assecondare i processi di cambiamento in atto e quelli attesi).
Una Fondazione di New York (la Carnegie Corporation) sostenne un imponente programma di indagini, che ebbero luogo in vari paesi d’America e d’Europa, per rilevare come si svolgessero le prove finali dell’istruzione secondaria. Sono gli esami che, con nomenclature locali differenti, consentono di ottenere il diploma di Baccalauréat, Abitur, General Certificate of Education, Matura eccetera. Quel che emerse con maggiore evidenza fu la bassa attendibilità degli esiti che le prove consentivano di rilevare.
Prendiamo in considerazione la ricerca svolta in Francia (l’Italia non prese parte alla ricerca, anche perché l’esigenza di porre in evidenza le caratteristiche delle prove era avvertita soprattutto nei paesi che si distinguevano per tassi di scolarizzazione più elevati, mentre il sistema scolastico italiano era alle prese con l’attuazione della riforma Gentile, il cui proposito si riassumeva nel motto “poche scuole ma buone”). La ricerca francese, svolta sotto la direzione di studiosi di grande valore, tra i quali Henri Piéron (considerato il padre della docimologia, ossia della scienza che studia la valutazione nei percorsi di istruzione) mise a nudo i limiti dei giudizi espressi dalle commissioni giudicatrici: poteva risultare che la stessa prova ottenesse un giudizio positivo o uno negativo, e che in alcuni casi portasse al conseguimento del diploma e in altri si dovesse ripetere l’esame.
Sono due esempi che si segnalano per un verso per aver sviluppato progetti nati da un dibattito interno ai sistemi educativi, e per un altro orientati a delineare scenari di progresso sociale e culturale. Se guardiamo, invece, agli orientamenti che più si sono recentemente affermati nel confronto internazionale, vediamo che sono dominati da logiche produttivistiche e di marketing, con una forte presenza di obiettivi contingenti e una sempre più tenue attenzione per gli scenari di lungo periodo. La ricerca comparativa (oggi soprattutto controllata dall’Ocse) non dispone di criteri che non siano in un modo o nell’altro espressione della globalizzazione economica. Il recupero di un’autonomia progettuale deve vedere impegnate le forze di progresso.