Il merito
va fatto fiorire
La scuola, a partire dal nido e dalla scuola dell’infanzia, è, dovrebbe essere il luogo e il tempo in cui si coltiva la meritevolezza di ciascuno, sostenendone lo sviluppo delle capacità, indipendentemente dall’origine sociale, l’etnia, la cittadinanza, la disabilità.
Sociologa; Honorary fellow al Collegio Carlo Alberto di Torino
Il riferimento al merito (non alla meritocrazia, che è un’altra cosa) per quanto riguarda l’accesso all’istruzione superiore, alle posizioni nel mercato del lavoro, all’accesso ai luoghi di presa delle decisioni, ha un’indubbia forza democratica. Rappresenta il contrasto al nepotismo, ai privilegi ereditati, alle rendite di posizione, al ricorso alle raccomandazioni. È anche uno strumento per valutare criticamente l’equità delle enormi disparità nei compensi dei grandi manager rispetto ai loro dipendenti. Richiede di valutare l’impegno che si mette per raggiungere i risultati, ma anche le difficoltà che si sono dovute superare. Proprio per la sua forza democratica è una rivendicazione spesso avanzata da chi soffre di qualche tipo di discriminazione. È il caso, ad esempio, delle donne quando richiedono di essere valutate per le proprie capacità e non in base a uno stereotipo di genere.
Proprio il caso delle donne mostra come, accanto alla difficoltà di far valere il proprio merito nel mercato del lavoro e nelle professioni, ci siano ostacoli che non consentono sempre di svilupparlo come sarebbe teoricamente possibile: stereotipi di genere, carriere rallentate o deviate, barriere di percorso. Perché il merito prima di essere visto e riconosciuto va alimentato in modo che possa fiorire. Anche i e le poche che hanno dotazioni naturali eccezionali (per le quali non hanno alcun merito) hanno bisogno di circostanze e incontri che consentano loro di manifestarle e nutrirle. Tanto più ciò vale per la maggior parte delle persone, che non ha doti innate eccezionali, ed ancor più per chi nasce e cresce in condizioni sociali svantaggiate.
La scuola, a partire dal nido e dalla scuola dell’infanzia, è, dovrebbe essere il luogo e il tempo in cui si coltiva la meritevolezza di ciascuno, sostenendone lo sviluppo delle capacità, indipendentemente dall’origine sociale, l’etnia, la cittadinanza, la disabilità. Perché tutti hanno diritto a sviluppare appieno le proprie capacità. Amartya Sen e Martha Nussbaum direbbero che è un diritto umano. In Italia è anche un diritto costituzionalmente fondato. Mi riferisco non solo all’art. 34 della Costituzione, secondo cui “I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”, ma prima ancora all’art. 3, secondo comma, che recita: “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.”. Le basi per lo sviluppo della “persona umana” e delle sue capacità si pongono, appunto, nell’infanzia e adolescenza, e i servizi educativi e la scuola ne sono strumenti essenziali, anche se non unici e non da soli.
Nell’impegnarsi in questo sta il merito, negli anni formativi, delle bambine/i e adolescenti. Parallelamente, la meritevolezza della scuola e degli insegnanti sta nel creare le condizioni – ambientali, didattiche, relazionali – perché l’impegno venga sollecitato, riconosciuto e accompagnato, tanto più grande quanto più agisce in contesti difficili, con bambine/ e adolescenti che non hanno alle spalle famiglie e contesti di vita dotati di buone risorse relazionali, culturali e materiali che possano integrarne l’azione. Quando il priore di Barbiana diceva che non si possono fare parti uguali tra diseguali non sosteneva che bisognava abbassare gli standard, come sostiene qualche critico superficiale. Al contrario era molto esigente con i suoi allievi. Sosteneva solo che, per sviluppare una didattica veramente inclusiva, ovvero che consenta a tutti/e di fiorire e sviluppare i propri talenti ed insieme di raggiungere gli standard necessari per muoversi adeguatamente in società, occorre tener conto dei punti di partenza e lavorare su e con essi, non ignorandoli in uno pseudo-universalismo cieco alle differenze e disuguaglianze. I dati sulla dispersione scolastica esplicita (abbandono) e implicita (mancato raggiungimento delle competenze minime) ne evidenziano il forte carattere classista, oltre che territorialmente disomogeneo. Più forte nelle regioni meridionali, dove tocca e i alcuni casi supera il 4% della fascia d’età coinvolta, la dispersione scolastica riguarda più i percorsi scolastici di norma frequentati dai ragazzi/e appartenenti ai ceti più svantaggiati: le scuole professionali (7,9 per cento), seguite dagli istituti professionali (7,2 per cento) e a grande distanza dagli istituti tecnici (3,2 per cento) e dai licei (1,6 per cento). Riguarda anche più gli alunni stranieri (specie se non nati in Italia) che gli autoctoni. Analogamente, nel caso della dispersione implicita, il drammatico 22% che ha terminato la secondaria superiore nel 2021 senza aver acquisito le competenze attese per l’età e il livello di scolarità non è distribuito in modo trasversalmente omogeneo in tutte le classi sociali e tipi di scuola. Riguarda maggiormente gli e le alunne appartenenti alle famiglie economicamente più modeste e dove i genitori sono a bassa istruzione, quindi hanno minore disponibilità sia materiale sia culturale per sostenere i figli/e nei processi di apprendimento.
Questi dati non costituiscono l’evidenza di una scuola che ha abbassato i propri standard in nome dell’uguaglianza e del disprezzo del merito, come sostengono alcuni laudatori del tempo antico che viceversa considerano che in questo consista il male e il fallimento della scuola dagli anni Settanta del secolo scorso in poi. Al contrario, sono l’esito di una scuola, e di modalità di insegnamento, che non sempre riescono a tener conto delle disuguaglianze e differenze come contesto e punto di partenza per una didattica capace di includere tutti nell’avventura dell’apprendimento e dello sviluppo della propria personalità. Purtroppo in Italia non solo non tutti i “capaci e meritevoli” privi di mezzi sufficienti sono messi in grado di proseguire gli studi, in barba all’art. 34 della Costituzione. Succede anche che a troppi non vengano garantite le condizioni educative e di apprendimento per diventare “capaci e meritevoli”, comunque per sviluppare le proprie capacità, in barba al secondo comma dell’art. 3 della Costituzione. Come ha documentato il rapporto del CRC (Gruppo di Lavoro per la Convenzione sui Diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza) dello scorso anno, dedicato alle diseguaglianze territoriali, le risorse educative sono distribuite in modo molto disomogeneo sul territorio nazionale, a partire dai nidi, passando per il tempo pieno scolastico, i servizi mensa, le palestre, i laboratori, svantaggiando sistematicamente le regioni meridionali (ove è maggiormente concentrata la povertà, specie minorile) e spesso anche i quartieri periferici delle grandi città e le aree interne.
Almeno dal punto di vista educativo, il merito non può, non deve, essere considerato come il criterio per una gara a chi vale di più, o tra chi vince e chi perde. Deve essere considerato insieme come un obiettivo – consentire a tutti e ciascuno di sviluppare la propria meritevolezza fornendo le condizioni necessarie – e un criterio di riconoscimento dell’impegno. Ciò non significa disconoscere e non valorizzare l’esistenza di particolari talenti, o anche solo di diseguali potenzialità e capacità. Significa assumere queste specificità e diversità non come criteri per effettuare una graduatoria di persone sulle quale vale più o meno investire, ma come punti di partenza per valutare l’impegno necessario, alle singole allieve/i e ai/alle loro insegnanti, per raggiungere determinati obiettivi.
Se il Ministero dell’Istruzione volesse davvero dare senso all’aggiunta “del merito” nella propria denominazione dovrebbe occuparsi di costruire le condizioni perché a tutte le bambine/i, a partire dai più svantaggiati, sia garantito il diritto costituzionale ad avere le risorse per il pieno sviluppo della personalità, capacità incluse. L’Italia è ricca di esperienze in questa direzione, anche in collaborazione con soggetti extra-scolastici all’interno di comunità educanti ove diversi soggetti collaborano tra loro e con la scuola per offrire alle bambine/i e adolescenti un ambiente di crescita e apprendimento ricco di stimoli e possibilità. Certo, occorrono, oltre che disponibilità reciproca, energie, tempo, capacità di rottura di schemi di lavoro consolidati. Purtroppo finora nessun Ministro si è impegnato a farle diventare la modalità normale di fare scuola, creandone le necessarie condizioni organizzative, istituzionali, di formazione degli e delle insegnanti.