formazione
La formazione
e la valorizzazione
professionale dei docenti
La formazione in servizio
va vista come opportunità
per il miglioramento
e la valorizzazione dei docenti,
ma qualunque proposta deve trovare regolazione nel CCNL.
Manca inoltre un profilo condiviso
su come debba essere un docente
di qualità e serve definire
i caratteri delle nuove figure professionali.
Dirigente del MIM – Ufficio Valutazione
del Sistema Istruzione e Formazione
COME STANNO LE COSE
Se non bastasse il buon senso, potremmo riportare ricerche e letteratura per sostenere che la qualità della scuola dipende prioritariamente dalla professionalità dei docenti. Allo stesso modo potremmo sostenere che la qualità dei docenti è determinata, oltre che dalle loro caratteristiche personali, soprattutto dalla formazione professionale. Eppure, nonostante le dichiarazioni di principio, il nostro Paese non è dotato di un sistema di “formazione come leva strategica fondamentale per lo sviluppo professionale” (CCNL art. 36), anche se ben sappiamo che il comma 124 della definisce la formazione in servizio dei docenti di ruolo come “obbligatoria, permanente e strutturale”. A ben vedere, lo stesso comma riporta che la formazione è orientata dalle “priorità” interne al “Piano nazionale di formazione, adottato ogni tre anni con decreto del Ministro”, eppure l’ultimo Piano nazionale di formazione ufficiale riguarda il triennio 2016-2019.
Si potrebbe anche dire che la definizione normativa della formazione come “obbligatoria, permanente e strutturale” non ha mai trovato un’interpretazione unanime e, ancor meno, una coniugazione concreta, tant’è che si è deciso di rimandare tutto all’autonomia scolastica con le attività formative definite all’interno del Piano Triennale dell’Offerta Formativa (in Italia, quando non si sa come risolvere un passaggio delicato si demanda all’autonomia delle istituzioni scolastiche). In sostanza, nulla di nuovo rispetto a quanto ben sappiamo, senonché, dentro questo quadro già complicato, negli ultimi tempi abbiamo visto almeno due novità che meritano una breve menzione.
Una novità si trova all’interno del contratto collettivo nazionale di lavoro (CCNL) per il comparto istruzione 2019-2021 (firmato il 18/1/2024). Il nuovo CCNL definisce che i corsi di formazione organizzati dall’Amministrazione a livello centrale o a livello periferico avvengono, di norma, “durante l’orario di servizio e in ogni caso fuori dell’orario di insegnamento” e che le ore destinate alle attività di formazione programmate annualmente dal Collegio dei docenti con il PTOF devono ricadere all’interno delle 40+40 ore delle attività cosiddette “funzionali alla prestazione di insegnamento”, altrimenti devono essere remunerate, con compensi stabiliti in contrattazione integrativa anche in misura forfettaria, a carico del fondo per il miglioramento dell’offerta formativa. Tale disposizione ha il merito di risolvere il problema della sostituzione del personale assente dalle lezioni per partecipare alle attività formative, ma di fatto introduce un problema organizzativo nella gestione delle attività collegiali cui finora erano state destinate tutte le 80 ore, in quanto l’effettiva possibilità di realizzare dei percorsi di formazione va a discapito delle attività funzionali all’insegnamento e, ovviamente, viceversa.
L’altra novità riguarda la FOVI all’interno della SAFI, ovvero la formazione volontaria ed incentivata (FOVI) promossa dalla Scuola di alta formazione per l’istruzione (SAFI). In estrema sintesi: il docente potrà scegliere volontariamente di frequentare tre cicli triennali di formazione e, a seguito di valutazione positiva, dopo nove anni potrà essere stabilmente incentivato con un assegno annuale ad personam che si sommerà al trattamento stipendiale. Questo sistema, una volta a regime, dovrebbe determinare un contingente di docenti con un incremento stipendiale e una differenziazione professionale, previo accordo all’interno della contrattazione collettiva. Ovviamente la SAFI si occupa anche di molti altri aspetti, fra cui la formazione iniziale dei docenti, la formazione dei dirigenti scolastici e del personale A.T.A. …, ma per ora consideriamo la formazione in servizio dei docenti di ruolo. Su quest’ultimo aspetto, crediamo che si possa convenire tutti sull’insostenibilità di un sistema di incentivazione e valorizzazione professionale che vede i suoi effetti dopo nove anni.
COSA DOBBIAMO FARE
Da molti (troppi) anni si discute della necessità di rimettere mano alla formazione in servizio dei docenti che nel tempo è passata da dovere a diritto, a diritto-dovere, a obbligatoria, permanente e strutturale, senza che in realtà nulla cambiasse effettivamente. Tant’è che, per uscire dallo stallo, si è pensato di utilizzare il PNRR e infatti la Riforma 2.2 all’interno della Missione 4 “mira a costruire un sistema di formazione di qualità per il personale della scuola in linea con un continuo sviluppo professionale e di carriera”. La piena attuazione della riforma avverrà entro il 2025 e comunque è facile ipotizzare che, rebus sic stantibus, avremo solo un’altra struttura in più (SAFI).
Per arrivare ad una vera riforma dovremmo innanzitutto dare un ordine a quanto abbiamo stratificato nel tempo con normazioni continue. A tale riguardo, in breve, basterà ricordare che la formazione in servizio oggi è definita da:
- una pluralità di punti di erogazione formali e informali;
- una pluralità di finanziamenti che vanno dal centro fino al singolo docente;
- una pluralità di dispositivi e di piattaforme per il suo tracciamento;
- una pluralità di finalità e di metodologie;
- una pluralità di interessi e di portatori di interessi.
Eppure, dentro questa complessità, non abbiamo un quadro di riferimento e nemmeno un Piano nazionale di formazione con priorità chiare e temi ineludibili da presidiare nei prossimi anni. Anzi, proprio perché abbiamo moltiplicato la frammentazione è difficile definire un quadro di riferimento e di conseguenza un Piano nazionale.
Teniamo conto del fatto che, per aumentare la complessità, fino al 2026 (e forse anche oltre) il PNRR, con una propria Unità di missione, bypasserà e surclasserà con progetti cogenti, target da raggiungere e consistenti finanziamenti, qualunque altra intenzione intorno alla formazione. Proprio per questo motivo è necessario fermarsi un attimo e, considerato che siamo all’interno di una rivista di un grande sindacato come CISL Scuola, è opportuno iniziare a riconsiderare la formazione in servizio all’interno di un dispositivo per eccellenza su cui possono agire le parti sociali: il contratto.
Infatti, qualunque buona idea sulla formazione in servizio deve comunque trovare una regolazione interna al CCNL. Tant’è che, in passato, abbiamo già visto, anche sui docenti e la loro valorizzazione professionale, norme primarie sono state ridimensionate dal contratto. Se le OO.SS. intendono utilizzare il contratto non in forma ostativa ma regolativa, bisogna iniziare a definire la formazione in servizio come opportunità per il miglioramento e la valorizzazione professionale dei docenti. È indubbio che bisognerà riaprire un vero “confronto” sulla formazione per rimettere mano alla definizione di temi quali le finalità, le priorità e gli obiettivi; i criteri per l’utilizzo delle risorse; la ripartizione delle risorse; le ricadute nel ruolo professionale; l’obbligatorietà o la facoltatività; ma, forse, oltre tutto questo, manca innanzitutto una proposta sostanziale che dia una svolta alla formazione.
COSA MANCA
Manca prima di tutto il profilo professionale del docente. Senza un profilo condiviso che assuma e definisca cosa intendiamo oggi per un docente di qualità, qualunque iniziativa collegata con la formazione potrà essere legittima, pertinente e opportuna, ma di sicuro non potrà essere efficace in quanto non sappiamo a cosa è finalizzata. Infatti, sulla formazione navighiamo a vista, senza una bussola e senza una rotta e, nonostante l’ipertrofia dei percorsi e dei finanziamenti, non abbiamo una verifica e ancor meno una lettura dell’impatto sulla professionalità docente e, di conseguenza sul miglioramento dei risultati degli studenti. A solo titolo di esempio, il docente deve indubbiamente conoscere la propria disciplina, deve padroneggiare l’epistemologia interna alla disciplina, deve sapere di didassi e di didattica, deve governare metodologie e innovazioni, deve contribuire al miglioramento della comunità professionale ed educante ma, allo stesso tempo, deve assumere le nuove sfide interne ai cambiamenti epocali che stiamo vivendo. Pensiamo anche solo alla presenza del digitale nella didattica e ai prossimi sviluppi dell’intelligenza artificiale che implicano nuove competenze per i docenti.
In realtà vi è un passaggio ancor più complesso, se vogliamo governare la complessità scolastica: abbiamo bisogno di individuare e definire anche i profili delle nuove figure professionali a supporto degli studenti, delle famiglie, dell’organizzazione e, in definitiva, della comunità educante. Se vogliamo liberare i docenti dai compiti necessari nella gestione di un’organizzazione complessa come la scuola, per fare in modo che si dedichino prioritariamente alla cura dei processi di insegnamento, l’unica possibilità, dopo aver esperito tutti i processi di semplificazione, è creare delle figure specifiche e specializzate a supporto della comunità scolastica.
Definire una figura professionale a supporto della comunità scolastica è diverso dal definirla a supporto del dirigente scolastico. Anche solo per il fatto che la comunità scolastica resta nel tempo e diventa parte organica della comunità sociale, contribuendo all’identità culturale del territorio (art. 3 D.P.R. 275/1999). Ma attenzione, il passaggio verso nuove figure professionali a supporto della comunità scolastica va realizzato con accortezza. Ovvero senza l’approssimazione che abbiamo visto con l’introduzione delle figure del tutor e dell’orientatore, previste dalle Linee guida per l’orientamento adottate con D.M. 328/2022, sprovviste di un profilo professionale e, di conseguenza, di una formazione adeguata; ma anche senza l’incertezza di un percorso, come la FOVI all’interno della SAFI, che non si sa quando si aprirà e nemmeno quando si concluderà (se consideriamo cosa può avvenire per un docente e per una scuola in nove anni di percorso formativo).
È necessario iniziare a discuterne in casa sindacale anche solo per il fatto che persistono diverse visioni e posizioni, non facilmente ricomponibili all’interno di un contratto collettivo. Per quanto possibile, sarebbe opportuno discuterne alla luce di approfondimenti e non per trascinamenti di posizioni pregresse. Da qui, oltre alle accreditate ricerche internazionali, è opportuno leggere con la necessaria attenzione la quarta indagine nazionale sulla professione docente dello IARD, che ritorna dopo ben 14 anni e (da notare) solo grazie all’impegno di una Fondazione.
Per concludere, permettetemi una citazione a memoria senza alcun commento. Nel lontano 1958, quando il Ministro dell’istruzione era un certo Aldo Moro, si introduceva con la legge 165 “il concorso per merito distinto”. In sostanza, si trattava della riformulazione di un vecchio istituto nato con la riforma Gentile che permetteva ai docenti, con “note di merito” del Preside, di accedere ad un concorso finalizzato all’aumento della retribuzione. Il merito distinto venne abolito nel 1974 con questa motivazione lapidaria: mina l’uguaglianza tra docenti.