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• Francesca Cucchiara  
   Adolescence, il mondo degli adulti
   sul banco degli imputati


• Elena Granata
   Per un'educazione alla curiosità
   (e quindi alla cura del mondo)


Ulderico Sbarra
   New Urban People


 

Per un'educazione alla curiosità (e quindi alla cura del mondo)
 

Nel nostro modello educativo siamo ancora capaci di suscitare curiosità, cura e affezione per i luoghi che abitiamo?

C’è bisogno di un’educazione allo sguardo,      di un’educazione che risvegli l’interesse,  

la meraviglia e la responsabilità,  

formando cittadini  attenti,

capaci di connessioni e di  cura.

La curiosità, naturale nei bambini,

viene troppo spesso soffocata dalla scuola; recuperarla è oggi un gesto politico

e pedagogico necessario.

Docente di Urbanistica

al Politecnico di Milano 

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EDUCARE ALLO SGUARDO, NON ALLA COLLEZIONE

Siamo ancora capaci, nel nostro modello educativo, di suscitare nei ragazzi curiosità, cura e affezione per i luoghi che abitano? Esiste un legame profondo tra la mortificazione sistematica della curiosità, intesa come postura vitale, e la disaffezione diffusa verso i luoghi e le comunità? Prendiamo in mano un libro di storia dell’arte, uno a caso tra gli innumerevoli che aumentano il peso degli zaini dei nostri figli. Sfogliandolo troveremo la storia dell’arte raccontata per frammenti, tutti diversamente  eccezionali:  un  tempio,  una  scultura,  un  dipinto  di  rara  bellezza, l’interno  di  una abbazia, la sezione di una cattedrale, una fontana di marmo.

Ordinati secondo stili e periodi storici, scanditi per ordinati capitoli dei libri, come compartimenti a chiusura stagna. Foto anche bellissime che restituiscono un pezzo da collezione privato del suo luogo, delle relazioni con il contesto, del suo habitat naturale. Fin da piccoli, attraverso la storia e in particolare la storia dell’arte,  che  più  di  altre  discipline  dovrebbe  allenarci  a  riconoscere  la  bellezza  intorno  a  noi, veniamo  educati  a  scontornare  ciò  che  è  bello  dal  proprio  contesto,  come  se  rimuovessimo  le figurine dall’album in cui sono state applicate, per goderle nella loro unicità, in un gioco alla rovescia. Veniamo educati al bello attraverso un esercizio di decontestualizzazione e di isolamento dell’opera d’arte, del monumento, dell’oggetto straordinario dal suo naturale contesto. Quella che pare una pratica innocua, accumulare “figurine” che non impariamo a collocare nei loro album, ha in realtà impatti molto profondi sul nostro modo di comprendere e abitare il mondo.

 

Bello è lo straordinario che si staglia nell’ordinario, bello è il monumento dentro ad un tessuto urbano anonimo, bello è sempre l’eccezionale che si distingue dalla mediocrità del tutto. È un’operazione di disgiunzione che ha importanti riflessi sul nostro modo di sentirci cittadini del mondo. Ce lo spiega Edgar Morin quando descrive lo scarto sempre più ampio, profondo e grave tra i nostri saperi – disgiunti – frazionati – compartimentati – e i problemi che si manifestano sempre in forme multidisciplinari, trasversali e planetari”(1). Per questo motivo, continua Morin, diventano invisibili il contesto, che ci consente di interpretare i fenomeni, e il complesso, che ci consente di cogliere il legame tra l’unità e la molteplicità.

 

Un sapere frammentato, da sempre focalizzato su un aspetto soltanto della propria realtà di osservazione, è un sapere che sarà sempre inesatto e incompleto, incapace di restituire risposte e analisi complesse ed esaustive. Non si tratta soltanto di un problema di tipo conoscitivo, ma anche di responsabilità sociale: la mente formata dalle discipline perde la sua capacità naturale di contestualizzare i saperi, così come di integrarli nei loro insiemi naturali.

LA CITTA' OLTRE IL MONUMENTO

Educati a questo sguardo parziale e selettivo ci muoviamo nel mondo come dei collezionisti. A Siena cerchiamo  Piazza del  Campo,  ad  Ascoli Piceno Piazza del  Popolo,  a  Venezia  Piazza  San  Marco, a Milano  piazza  del  Duomo  o  Piazza  Gae  Aulenti.

Che  cosa  c’è  intorno?  Come  si  relaziona  il monumento con il suo contesto? Cosa guardo quando guardo? Mi accorgo e mi sdegno del degrado e dell’incuria che vedo appena mi allontano dal luogo straordinario? L’idea di cosa sia bello e cosa no, cosa valga la pena osservare e cosa resti nel retroscena, abitua il nostro  occhio  a  non  vedere  quello  che  è  invece  è  semplicemente  brutto,  che  archiviamo  e derubrichiamo come contorno, come un paesaggio neutro, senza che attivi la nostra attenzione e responsabilità.  E  paradossalmente  questa  dicotomia  dello  sguardo,  che  cerca  il  bello  assoluto  e ignora sistematicamente il brutto è più accentuata proprio nella cultura italiana che almeno sulla carta ha il culto della propria bellezza e unicità. Questo tipo di educazione allo sguardo, selettiva e per eccellenze codificate, ci priva della curiosità.

Guardare non è solo un atto percettivo ma s’intreccia con il vissuto, la storia e la nostra memoria, dando luogo a un’esperienza complessa, dove non esistono regole e dove vedere significa essere costantemente sorpresi da qualcosa. Quello che vedo, dunque, dipende anche da quello che so e dalla sensibilità all’osservazione che ho coltivato. Un occhio consapevole, che sappia osservare e rintracciare  nelle  forme  della  città  le  regole,  la  storia,  l’evoluzione  della  società,  l’impronta dell’economia  in  un  intreccio  che si  fa  materia,  va  educato.  Un  occhio  colto  e  coltivato  può accrescere  la  nostra  visione  ma  solo  a patto  che  sappia  sempre  abbandonarsi  alla  sorpresa  e all’emozione, che lasci spazio per il dettaglio inatteso. La curiosità, l’interesse, la motivazione a conoscere, muovono il ragazzo a scoprire ambiti sempre più allargati, circuiti più complessi, intrecci di persone e di luoghi.

 

La curiosità tipica dell’adolescente lo porta a uscire da casa per conoscere il mondo esterno, a cercare nuovi spazi di aggregazione, nuovi stimoli, a volte nuovi pericoli che mettano a repentaglio la condizione ingenua del bambino. Un’esigenza che può continuare a crescere se coltivata anche nel tempo della maturità. A patto che non ci adattiamo a diventare incuriosi e pigri.

 

LA CURIOSITA' COME VIRTU' CIVILE

Nella radice della parola curiosità vi è una spinta intrinseca, un’energia vitale che ha a che fare con il nostro essere vivi, istintivi, animali. Il curioso ha premura, si prende cura, si interessa. È la capacità sviluppata  nei bambini  ma  anche  nei  grandi  filosofi,  come  ci  racconta  Michel  Foucault,  che  la descrive come attenzione e sollecitudine verso ciò che esiste e ciò che potrebbe esistere. Il vero curioso non cerca certezze ma è mosso da inquietudini, pone domande per aprirsi a nuove strade. Il curioso ha un senso acuto del reale ma non resta immobile di fronte ad esso. Si disfa di ciò che è famigliare e guarda le cose da un altro punto di vista.

La forza della curiosità lo porta oltre l’utilità contingente o i vantaggi che può portare. La curiosità dipende certamente dalle caratteristiche degli individui, dall’atteggiamento che hanno verso  la  vita  ma  dipende anche  dall’incoraggiamento  che  hanno  ricevuto  dall’esterno,  in  modo particolare dal sistema di rinforzi e di punizioni incontrati lungo i percorsi formativi. La curiosità, rivelano i più recenti studi sul cervello, è in qualche modo collegata al meccanismo dell’anticipazione  della  ricompensa,  a  quel  piacere  che  si  attiva nella  nostra  mente  quando prevediamo di ricevere una gratificazione, una conferma, un premio. Prevedere una gratificazione è di per se stesso fonte di piacere.

 

Si nasce curiosi, tutti, per natura e per  come  si  attiva  e  funziona  il  nostro  sistema  neuronale,  ma  si rischia  di  diventare  incuriosi, crescendo, in virtù di quelle mancate conferme e mortificazioni conosciute negli anni della crescita e della scolarizzazione. Tutte le volte che la scuola, attraverso pratiche, condotte, regolamenti impone agli studenti di non distrarsi, di non uscire dal seminato, di non andare fuori tema, di non fare domande, di stare nelle righe, li educa indirettamente all’incuriosità. Ecco perché ripensare radicalmente i nostri modelli educativi, che oggi mortificano la curiosità e allevano tanti piccoli incuriosi, è la sfida più importante (anche) per chi abbia a cuore le virtù civili.

(1)  Morin E., I sette saperi necessari all’educazione del futuro, 2001, p. 35

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